Giuseppe Conte ed Enrico Letta si sono incontrati pochi giorni fa per iniziare concretamente il percorso ampiamente preannunciato tra “interlocutori privilegiati”, come i due professori ed ex-premier – liquidati nel modo che presumibilmente “ancor li offende” – amano definire il rapporto tra M5S e Pd, entrambi in fase alquanto critica e affidati alla loro capacità di ricostruzione in vista di quell’alleanza competitiva che dovrebbe decollare già dalle Amministrative.

In casa Pd il neosegretario, forte di un voto unanime di cui avrebbe volentieri fatto a meno, è riuscito in tempi molto stretti a sostituire i due capigruppo renziani usando in modo a mio parere strumentale l’argomento incontestabile della parità di genere, che sta diventando sempre più un feticcio scollegato al merito: una parità che doveva essere ripristinata anche per bilanciare una compagine ministeriale di capicorrente tutta al maschile.

Così, dopo un braccio di ferro con l’uscente Andrea Marcucci, che ha portato avanti nel Pd tutte le battaglie in concerto con IV, al Senato è stata eletta all’unanimità la già renzianissima Simona Malpezzi: scelta da Lotti e Guerini con il placet in extremis dello stesso Marcucci, la Malpezzi è esponente di punta di Base riformista, la corrente degli amici di Renzi nel Pd.

Per la successione di Graziano Delrio alla Camera sono in pole position: Deborah Serracchiani, gradita sia a Franceschini che allo stesso Delrio e – pare – in buoni rapporti con l’ex alter ego di Renzi, Luca Lotti; e Marianna Madia, già pupilla di Veltroni e a seguire dalemiana, lettiana, bersaniana, renziana e ora of course più lettiana che mai. Ma le ultime aspre polemiche tra quest’ultima e Delrio, accusato di doppiogiochismo, confermano le tensioni, i personalismi e la mancanza di trasparenza.

Al netto delle apparenze e della fin troppo sbandierata ventata di rinnovamento è abbastanza chiaro che a comandare sono sempre le correnti: a rappresentarle non ci sono uomini ma donne, i cui curricula però tendono a confermare una decisa propensione a schierarsi con il segretario di turno e ad assecondare i rapporti di forza all’interno del partito nonostante le dichiarazioni altisonanti e battagliere della neoeletta Malpezzi che ha preannunciato di “voler dare forza e sostanza ad una leadership femminile”.

A margine dell’incontro con Letta che Conte aveva definito “molto proficuo e molto utile”, l’ex premier ha anche confermato di essere impegnato in un progetto che vuole “rilanciare il M5S in tutte le sue componenti”, aggiungendo che non vede perché “si debba decidere di non usare più la piattaforma Rousseau” e auspicando che possa essere composto amichevolmente lo scontro con Davide Casaleggio.

La realtà con cui deve misurarsi Conte nella ricostruzione del M5S è più complessa e difficile di quanto emerge dalle sue parole: la sua indubbia credibilità e autorevolezza – confermate anche nell’era Draghi da un gradimento che lo pone in testa tra i leader politici, con un notevole distacco – non sono da sole sufficienti a garantire il successo dell’operazione.

La realtà odierna del M5S, dopo le espulsioni punitive a tamburo battente anche di chi si è astenuto sulla fiducia a Draghi e gli addii di molti big, è caratterizzata da passaggi quotidiani di parlamentari al Gruppo misto, da un fermento interno in cui è difficile distinguere le iniziative mosse da sacrosante istanze di difesa dell’identità, messa a dura prova dal “governo di tutti” da quelle generate dalla frustrazione per una nomina mancata.

E contemporaneamente spuntano quelle che non è improprio chiamare correnti: dalle più “governative” come Italia più 2050 che non esclude di formare una lista per Conte di appoggio al M5S per includere parlamentari uscenti anche dopo i due mandati e qualche ex, al nuovo nuovo gruppo Innovare che al contrario riafferma il limite dei due mandati in sintonia con la linea di Casaleggio, ribadita da ultimo anche da Beppe Grillo.

Quando aveva accettato il non lieve incarico per il suo “progetto rifondativo”, Conte aveva parlato di “nuovo Movimento aperto, accogliente, intransigente”. Volendo essere rispettosi del significato delle parole, vorrebbe dire circa l’esatto contrario di democristiano, normalizzato, moderato, iper-correntizio e cioè una specie di copia conforme del Pd, come ci viene raccontato senza eccezioni da commentatori ed opinionisti.

Molto opportunamente è intervenuto il garante all’assemblea congiunta dei parlamentari 5S per ribadire due pilastri dell’identità del Movimento: “transizione ecologica” senza la quale non esiste futuro e reddito di cittadinanza da trasformare in “reddito universale”. Accanto a lui il ministro Roberto Cingolani che finora ha parlato molto poco e ha avuto l’onore di essere attaccato in prima pagina dal Giornale solo per aver invitato gli italiani a mangiare meno carne per migliorare la loro salute e quella del pianeta. Quanto al futuro elettorale, Grillo ha blindato il limite dei due mandati per i parlamentari. Così come da tempo con analoga fermezza ha blindato la candidatura di Virginia Raggi nonostante l’ostilità della sinistra più o meno intelligente: “una minaccia” per Zingaretti, derubricata infine da Letta a “pietra di inciampo”.

Il sostegno incondizionato alla Raggi rappresenta un importante tassello identitario per il M5S oltre alla difesa non strumentale di una donna, lei sì, che pur tra errori ed ingenuità ha seguito la sua strada in autonomia e rimane un modello di integrità e coerenza apprezzato da molti dei suoi concittadini almeno secondo i sondaggi, relegati non a caso nelle pagine locali, in cui è sempre davanti ai suoi pochi, tardivi e spesso arroganti sfidanti.

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