“Il maggiore malessere è dovuto al protrarsi della situazione. Non è normale passare i propri diciott’anni chiusi in casa. Non si cresce, così“. È solo una delle frasi del campionario raccolto dalla Consulta provinciale studentesca di Lecco attraverso un questionario che ha coinvolto più di 5mila giovani che frequentano le scuole secondarie di secondo grado chiedendo loro un’opinione su gestione trasporti, contenimento del contagio e Covid nei rispettivi Istituti.
Un lavoro enorme che ha visto impegnati in primis proprio i ragazzi: “Come Consulta – spiega la 18enne vicepresidente Carlotta Sandrinelli – abbiamo il compito di riportare alla politica e non solo la situazione che stiamo vivendo. Siamo riusciti a farlo e ora stiamo organizzando un webinar per i docenti e i genitori”. La fotografia emersa è quella di uno spaccato di una delle realtà tra le più ricche d’Italia che lascia presagire quanto possa essere drammatica la situazione in altre zone dove la povertà complica ancor più la vita dei ragazzi dopo oltre un anno di Covid.
La Consulta ha deciso in modo particolare di fare una riflessione sull’ultimo quesito del sondaggio, affidando la rielaborazione dei dati al sociologo Stefano Laffi. L’ultimo punto del questionario dava la possibilità di rispondere liberamente alla domanda “vuoi aggiungere qualcosa sulla tua situazione psicologica?”. L’11% dei ragazzi, ovvero 635 giovani (due studenti per ogni classe), ha voluto rispondere.
Il quadro che ne esce è preoccupante. Se è vero che sono soprattutto i mezzi pubblici (e la relativa capienza) a dare un senso di insicurezza agli studenti, perché due terzi di loro vi deve ricorrere, è altrettanto vero che la quota di popolazione scolastica che dichiara malessere è superiore alla metà. E i numeri suggeriscono che lo star male dei giovani non dipende dal senso di sicurezza o insicurezza ma da altro.
Laffi ha fatto un’analisi qualitativa delle risposte prendendo in considerazione i 213 studenti che hanno specificato il loro malessere. Ecco alcune delle considerazioni fatte dai ragazzi: “Ho sviluppato attacchi di panico frequenti, ansia, incubi ricorrenti, mangio poco e non dormo bene, sono triste”; “Ho iniziato ad avere seppur brevi attacchi di panico e problemi a dormire la notte per via dell’ansia provocata dalla scuola e dall’enorme mole di lavoro”; “Mal di testa perenne, occhi stanchi, credo di aver perso ancora qualche grado di vista e talvolta vorrei solo rompere lo schermo e fermare quelle voci robotiche che mi causano stress e malessere”. Tradotto, i ragazzi non ce la fanno più. Qualcuno usa il termine depressione per indicare la tristezza ma c’è anche chi ha rivelato di aver dovuto intraprendere un percorso terapeutico: “È andata malissimo, da febbraio mi sono ammalata di un disturbo alimentare, la scuola dovrebbe tener conto che ci sono altri problemi e se siamo a casa non significa che bisogna aumentare il carico”; “Non ho mai sofferto d’ansia, ma da ottobre sono svenuto almeno sei volte, ho sviluppato una forma di pitiriasi (chiazze rosse dovute allo stress e all’ansia) su tutto il petto e sulla schiena, ho frequenti nausee la sera e continui crolli psicologici”.
Dall’osservazione delle dichiarazioni dei ragazzi arriva anche una stroncatura netta alla didattica a distanza: “Quando si vuole tornare in presenza – spiega il sociologo – è perché non se ne può più della didattica a distanza e del distanziamento fisico, quando si vuole restare a casa è per il timore del contagio, non perché si apprezzi la didattica a distanza (salvo un paio di espliciti apprezzamenti). Quest’ultima, accettata nel primo lockdown come soluzione di emergenza, sembra in questo nuovo anno scolastico aver superato una soglia di tolleranza. Il messaggio è chiaro: la dad non può essere la nuova prassi, ma solo una soluzione in extremis”.
Laffi è andato anche oltre, prendendo in considerazione le risposte dalle quali sono emersi i difetti delle lezioni da casa: appiattimento dei temi e delle discipline in un’unica modalità “erogativa”, affaticamento mentale e fisico, difficoltà di concentrazione, rischio di sovraccarico di lavoro, difficoltà di valutazione del lavoro a distanza da parte dei docenti e demotivazione allo studio.
Il sociologo cui la Consulta ha affidato il compito di fare un report arriva ad una conclusione: “Non è il Covid il vero problema, nessuno usa questo spazio libero per prendersela con il Covid, la sorte o le ragioni scientifiche della pandemia, ma è il modo di fare scuola. Nella prospettiva degli studenti è una scuola che, soprattutto in questa seconda stagione del confinamento, dall’autunno 2020, non ha saputo leggere la situazione e capire quale fosse il suo ruolo. Ha finto comprensione ma poi ha provato a fare come sempre, senza reinterpretarsi, e ha finito nel vedere lo studio da casa come un privilegio, non come una privazione, da sanzionare con più lavoro senza pensare ai risvolti psicologici della situazione”. Nessuno ha le soluzioni in tasca ma Carlotta Sandrinelli sa che questi dati sono un primo passo: “Stiamo restituendo questi numeri ai ragazzi attraverso i social. Serve un lavoro di cooperazione per dare delle risposte ai problemi che sono emersi”.