Il 31 marzo è stata la Giornata Internazionale della Visibilità Transgender (TDoV, dalla sigla inglese), momento di sensibilizzazione sui diritti delle persone trans e sulle discriminazioni a cui sono esposte. Una giornata di visibilità, appunto, di megafoni accesi, storie da raccontare e stereotipi da decostruire. Io, mercoledì, ho deciso di ascoltare. Ma come ha scritto l’attivista Daphne Bohémien, un giorno solo non basta se nei restanti c’è invisibilità, derisione e marginalizzazione.
In effetti, le persone trans in tutte le fasce d’età sono soggette a un tasso di disoccupazione molto più alto e, lì dove il lavoro c’è, sono molto più esposte a molestie e mobbing. O ancora, secondo gli ultimi dati dell’associazione Transgender Europe, lo scorso anno sono state uccise 350 persone trans e non binarie: il 98% sono donne trans. Un altro esempio? Secondo un’analisi dell’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali, circa la metà delle persone trans intervistate haì dichiarato di essere stata minacciata e insultata nell’ultimo anno in luoghi pubblici come piazze, parcheggi, strade.
Finito il flusso degli hashtag, seguendo i preziosi suggerimenti di attivisti come Elia Bonci o Francesco Cicconetti, ecco cinque consigli per essere buoni alleati e alleate della comunità trans.
1. Controlla il tuo sguardo. Giocare a “indovina se è maschio o femmina” non è un passatempo, ma una vera e propria forma di violenza per le persone trans o non binarie. A tal proposito, sotto l’ombrello della famosa T della sigla arcobaleno stanno decine di sfaccettature. La più rilevante è quella che differenzia le persone trans che scelgono un percorso binario (cioè non riconoscendosi nel genere assegnato alla nascita, si identificano comunque come uomini o donne) e le identità non binarie, ovvero le persone che non stanno incasellate in uno dei due generi che la società comunemente riconosce.
2. Usa i giusti pronomi e non fare domande troppo intime. Questo punto solitamente mette in crisi anche le migliori intenzioni. Spesso ci si sente in imbarazzo, non si vuole offendere nessuno, ma tirare a indovinare i pronomi non è una buona strategia. La miglior soluzione? Chiedere alla persona diretta interessata se preferisce il maschile, il femminile o delle soluzioni più neutre. In questo l’italiano non ci presta manforte rispetto all’inglese o ad altre lingue, ma è comunque un bel gesto provare a sforzarsi. Parlando di sforzi: è meglio non fare domande sul deadname, cioè quello prima del coming out, né su interventi chirurgici e attributi sessuali. Se la persona T in questione è tua parente o amica fidata, saprà scegliere il momento giusto per raccontarsi. Se vorrà.
3. Riconosci il tuo privilegio. Parliamoci chiaro: le persone cis (cioè quelle che si riconoscono nel genere che gli è stato assegnato alla nascita) sono più del 99% della popolazione. Non abbiamo idea di cosa significhi subire odio transfobico e il riconoscimento di chi siamo è una cosa che diamo per scontata. Per affermare la propria identità, invece, le persone trans o non binarie possono scegliere percorsi sia legali (ad esempio la “rettificazione del sesso sui documenti”, che sarebbe più opportuno chiamare “conferma di genere”, per la quale già da diversi anni non è più obbligatoria la procedura chirurgica) che medicali (terapie ormonali, microdosing ormonale o operazioni chirurgiche per l’adeguamento dei caratteri sessuali). Ho scritto che le persone T possono scegliere una di queste strade, perché altrettanto validi sono i percorsi di chi afferma la propria identità di genere in modi non ufficiali e non medicalizzati.
4. Informati, sii sensibile, condividi. Non arrenderti di fronte alle sigle della comunità Lgbtqi+. Non sono parole vuote, ma identità, storie, battaglie. Non dire frasi come “adesso va di moda”, perché nessuno sceglierebbe una strada fatta di ostacoli legali, sociali, medici e spesso anche familiari tanto per impegnare il tempo. L’Oms non considera più la disforia di genere una malattia mentale, quindi direi che è il caso che anche la società cominci ad accoglierla con più naturalezza ed empatia.
5. Chiedi ai tuoi rappresentanti politici – anche territoriali – di interessarsi ai diritti delle persone trans. Chi siede in Parlamento, più di chiunque altro, ha il dovere di ascoltare le istanze di tutti i cittadini. Provvedimenti urgenti e necessari come il ddl Zan non possono più essere rimandati. La discriminazione non si ferma davanti al Covid, anzi. In quest’anno fatto di vita online e sfera social non sono stati pochi i casi di zoombombing, durante eventi dedicati ai diritti delle donne o della comunità Lgbtqi+. Falli, svastiche, minacce e insulti ben visibili sugli schermi, vere e proprie irruzioni digitali per distruggere spazi sicuri di dialogo e confronto.
Riconoscere il fallimento della rigidità di genere è un fatto umano, sociale ed etico. Richiede tempo, è vero, ma era il ’69 quando persone trans come Sylvia Rivera e Marsha P. Johnson davano vita ai movimenti per la liberazione della comunità Lgbt. Sono passati più di cinquant’anni, quanto tempo ci serve ancora?