di Arcangelo Brancaccio
I nuovi criteri di assimilazione dei rifiuti, introdotti dal D.Lgs. 116/2020, eliminano i regolamenti con i quali i Comuni assimilavano agli urbani i rifiuti speciali prodotti da enti e imprese, stabilendo il relativo tributo, e introducono un’assimilazione ex lege. Questo, se da un lato semplifica la vita alle imprese e le sottrae all’arbitrio dei Comuni, dall’altro contrasta con l’orientamento consolidatosi negli ultimi due decenni e comporterà, con ogni probabilità, un aumento della tassa rifiuti per tutte le utenze.
Negli anni, le norme in materia erano andate in direzione di una delimitazione delle aree dove si producono rifiuti speciali (sulle quali si paga la Tari), anche per le proteste delle aziende – in particolare quelle grandi che si vedevano spesso applicare una tassa sulle superfici – che reclamavano l’applicazione della tariffa puntuale, cioè pagare in proporzione ai rifiuti conferiti al servizio pubblico (principio chi inquina paga).
Questo principio aveva trovato la sua consacrazione nella legge 147/2013. L’art.1, comma 641, stabilisce che “Il presupposto della Tari è il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di locali o di aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani” mentre il comma 649 prevede: “Nella determinazione della superficie assoggettabile alla Tari non si tiene conto di quella parte di essa ove si formano rifiuti speciali […]. Per i produttori di rifiuti speciali assimilati agli urbani, il comune disciplina con proprio regolamento riduzioni della quota variabile del tributo proporzionali alle quantità che il produttore dimostra di aver avviato al riciclo”.
La modifica introdotta con il nuovo articolo 183 del D.Lgs. 116/2020 ribalta questa impostazione. Il comma 1, lettera b-ter) punto 2, prevede infatti che ora sono rifiuti urbani anche “i rifiuti provenienti da altre fonti che sono simili per natura e composizione ai rifiuti domestici prodotti dalle attività riportate nell’allegato L-quinquies”. Praticamente tutte, tranne agricole e industriali. Quindi dal 1° gennaio 2021, tutti i rifiuti prodotti da quelle attività economiche, che prima erano speciali da assimilare caso per caso, adesso sono in automatico assimilati e conferibili al servizio pubblico.
Ora, a parte la capacità dei Comuni di gestire volumi enormemente accresciuti (si pensi a quelli di un ipermercato della Gdo), essendo venuta meno la distinzione delle aree dove si formavano rifiuti speciali (ad esempio i magazzini di materie prime e di merci), tutta la superficie è teoricamente imponibile e dunque è prevedibile un aumento della tassazione per le aziende, anche per far fronte agli aumentati costi di gestione.
Ma non è tutto. La stessa norma mette con una mano ciò che toglie con l’altra. Se da un lato assimila tutti i rifiuti non domestici, dall’altro offre una scappatoia. Il nuovo comma 10 dell’art. 238 stabilisce: “Le utenze non domestiche che producono rifiuti urbani che li conferiscono al di fuori del servizio pubblico sono escluse dalla corresponsione della componente tariffaria rapportata alla quantità dei rifiuti conferiti”. Sembrerebbe dunque una esenzione totale della quota variabile (quella relativa ai rifiuti conferiti al servizio pubblico) mentre prima le aziende beneficiavano solo di una riduzione.
Questo significa che molte imprese, soprattutto quelle che hanno grossi volumi, sfrutteranno questa opzione per non vedersi aumentata la tassa, che però aumenterà per le utenze domestiche a causa del minor introito e dei maggiori costi. Ora anche l’Anci ha chiesto una proroga di un anno, paventando “un rischio di aumento della pressione fiscale su cittadini e piccole attività per recuperare il minor gettito”.