di Carlo Branzaglia
Il parere del Ministero dello Sviluppo Economico, datato 24 marzo, su imprese sociali e start up innovative a valore sociale (SIAVS) ha destato forti riserve da parte dei rappresentanti del Terzo Settore. Ed è anche un segnale di cosa significhi innovazione, per i rappresentanti delle nostre istituzioni di ogni ordine e grado. Nel testo del Mise, le SIAVS non vengono annoverate fra le imprese sociali (ovvero il Terzo Settore) perché hanno l’obbligo di non essere lucrative solo per i primi cinque anni: quindi mantengono il loro status di attività profit, a differenza delle seconde.
Va da sé che, ad oggi, diverse entità sono ascritte ad entrambe le formule: il 10%, dice Paolo Venturi, direttore di Aiccon, Associazione Italiana per la promozione della Cultura della Cooperazione e del Nonprofi, in una dichiarazione raccolta dal portale Vita, nella quale si dimostra ovviamente in disaccordo con l’interpretazione del Ministero, che di fatto toglie possibilità di accedere a bandi e opportunità. Un segnale poco tranquillizzante, per il Terzo Settore, che il nostro paese, abituato alla beneficenza pelosetta, fatica molto a individuare come contesto economico a tutti gli effetti, in grado di generare ricchezza ma soprattutto di redistribuirla sotto forma di welfare.
Il segnale è però molto indicativo in termini generali di cultura dell’innovazione. Decenni di investimenti su industria e istituzioni ci hanno insegnato che in Italia l’innovazione non è tale se non passa per la tecnologia. Le stesse start up non sembrano tali se non si avvalgono di “nuove” (per chi?) tecnologie. Sfugge l’aspetto processuale dell’innovazione, ovvero quanto una idea sia in grado di rivedere un processo, per soddisfare un bisogno latente. Certo, inventando un algoritmo per mettere in contatto le pizzerie con l’utente finale; ma, magari anche applicando una tecnologia vecchia ad un settore nuovo; rivedendo una metodologia di produzione; lavorando con i cittadini allo sviluppo di politiche di gestione di beni comuni.
E pensare che siamo nel paese che ha dato vita all’Umanesimo, traducibile in humanities, quelle affiancate a technology e business quando si vogliono stabilire i pilastri delle aree legate a design, innovazione, industrie creative. Termini come social design, social innovation o design for communities per noi sono ancora ostici, anche se incominciano a comparire finalmente in premi e riconoscimenti legati ad ambiti variegati, come variegate sono le applicazioni di tali concetti.
E’ un problema culturale, che però ha effetti sull’ambito economico e su quello sociale, perché porta a non investire concretamente sulla innovazione, pur facendosene vanto. Sfugge, soprattutto, la capacità di cogliere il fatto che le idee nascono dal basso, spesso spontaneamente, e in genere da un humus culturale fervido (che sia tecnico o filosofico… ): per questo ha avuto tanta fortuna (letteraria, da noi) il termine Industrie Culturali e Creative.
Le imprese sociali, a maggior ragione, portano non solo assistenza ma spesso e volentieri innovazione nelle relazioni sociali all’interno dei territori e delle comunità, anticipando (se va bene) o sostituendo (se va male) quello che il pubblico dovrebbe fare. Dando struttura e metodologia alla resilienza, termine che altrimenti, in bocca a molti amministratori, assomiglia più ad un “arrangiatevi”; e permettendo di modellizzare le pratiche trasformandole in soluzioni scalabili.
Magari coinvolgendo il privato, ovvero le imprese, che con buona pace di De Benedetti (a leggere il suo ultimo libro) hanno, e incominciano a riconoscersi, una responsabilità sociale. E’ innovazione, e della miglior specie: perché si bassa sulle risorse umane, elemento che tutte le ricerche sulle Industrie Culturali e Creative ritengono davvero cruciale.