Nel dibattito pro o contro il vaccino obbligatorio bisogna ascoltare i giuristi o gli scienziati? La risposta è ovvia: i primi. I secondi possono aiutarci a capire se un vaccino è efficace o meno (questione clinica). I giuristi dovrebbero avere invece – se non l’ultima – almeno una decisiva parola rispetto all’obbligatorietà (questione giuridica). Sennonché, sembra che in Italia anche la faccenda dell’imposizione coercitiva del vaccino sia appannaggio della scienza o di alcune sue branche, come la virologia. E – al contrario di quanto sarebbe lecito, e giusto, attendersi – non pare che la scelta del governo Draghi di prevedere la vaccinazione obbligatoria per gli esercenti le professioni sanitarie sia stata preceduta da una seria riflessione giuridica. Un provvedimento a mio avviso di dubbia efficacia, ma soprattutto di dubbia legalità, e qui provo a spiegarvi il perché.
Rendere obbligatorio il vaccino per i sanitari è di dubbia efficacia perché non vi è ancora certezza che il vaccino protegga dal contagio. La vera tutela per gli utenti delle strutture sanitarie pubbliche e private passa più dal vaccino alla popolazione “target” del virus (cioè, gli ultrasettantenni) che non dall’obbligo vaccinale imposto a chi li assiste.
Quanto all’aspetto giuridico, provo a spiegare perché tale vincolo, sia esso generalizzato o limitato a talune categorie di lavoratori, ha una seria probabilità di incagliarsi nella palude della anticostituzionalità. La Corte Costituzionale ha, fin dalla pronuncia nr. 258 del 1994, giudicato ineludibile – per la legittimità dell’obbligo – che il legislatore, alla luce delle conoscenze scientifiche acquisite, individui “con la maggiore precisione possibile le complicanze potenzialmente derivabili dalla vaccinazione”. Anche per determinare “se e quali strumenti diagnostici idonei a prevederne la concreta verificabilità” siano praticabili su un piano di concreta fattibilità.
La Corte ha anche, a più riprese, stabilito che le condizioni per l’imposizione dell’obbligo discendono da un equo contemperamento tra il diritto pubblico alla salute (che è diritto individuale, ma anche interesse della collettività) e il diritto alla autodeterminazione del singolo (cioè, il poter decidere autonomamente se curarsi o meno ovvero se ricevere un determinato trattamento sanitario piuttosto che no). È evidente che la decisione di “scavalcare” il diritto alla autodeterminazione per far prevalere la tutela della salute di tutti non può che discendere da due circostanze: la accertata, e sperimentata, sicurezza di un farmaco (il vaccino) da un lato, e un pericolo reale in essere per i singoli e per l’intera collettività, dall’altro.
Solo se il rimedio è sufficientemente, e dimostrabilmente, sicuro nel lungo periodo e il rischio del contagio è effettivamente elevato erga omnes si potrà, Costituzione alla mano, imporre un obbligo vaccinale a tutta la cittadinanza, o anche solo a una sua parte.
Orbene, dei vari vaccini anti-Covid – pur “bollinati” dai prescritti nulla osta sul piano amministrativo – a mio giudizio non si sa abbastanza sul piano delle potenziali conseguenze. In una Comunicazione della Commissione europea del 17.06.2020 leggiamo: “In genere per sviluppare un vaccino ci vogliono più di 10 anni. Lo sviluppo di un vaccino sicuro ed efficace è infatti un processo altamente complesso”. Ergo, un vaccino con alle spalle la ricerca di pochi mesi non può vantare la stessa sicurezza di quelli “normali”, per di più su un virus di nuova generazione come il Covid.
Nel sito dell’Aifa, rispetto al vaccino Comirnaty della Pfizer, si legge che “studi indipendenti sui vaccini Covid-19, coordinati dalle autorità dell’Ue, forniranno informazioni aggiuntive sulla sicurezza a lungo termine del vaccino e sui relativi benefici per la popolazione in generale”. Poiché il tempo non si compra, la fase sperimentale è, di fatto, ancora in corso e tutti i vaccinati stanno prestando volontariamente il loro contributo alla causa.
Inoltre, molti degli operatori sanitari i quali saranno chiamati all’obbligo – pena la sospensione del lavoro e dello stipendio – hanno una probabilità insignificante di ammalarsi. Ce lo dice una fonte qualificatissima, e insospettabile di negazionismo: in base a un report dell’Istituto superiore della sanità del 10 marzo 2021, infatti, il tasso di letalità del Covid-19 è dello zero per cento fino a quarant’anni di età e diventa dello 0,2 per cento (quindi, sempre meno di una influenza virulenta) dai quaranta ai cinquanta. Esso aumenta significativamente solo nelle fasce di età da settanta a ottanta (9,4 per cento), da ottanta a novanta (19,8 per cento) e da novanta in sù (26,7 per cento).
Dunque, nel bilancio rischi/benefici, ritengo che un vaccino obbligatorio per persone sotto i cinquant’anni violi il principio di proporzionalità e razionalità. Ed è vieppiù inutile se gli utenti dei servizi sanitari davvero a rischio (per la loro età) vengono vaccinati prioritariamente rispetto a qualsiasi altra categoria di soggetti. Come avrebbe dovuto succedere, ma non è successo affatto.
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