Il pallone che finisce dietro le spalle di Tacconi, per la seconda volta, il Via Del Mare che esplode: il Lecce batte la Juventus e lui, Pedro Pasculli da Santa Fe si gode lo spettacolo. È la dolce primavera dell’89, inaspettata, visto che ai salentini di Carletto Mazzone toccano una dietro l’altra tutte le grandi: Roma, Milan, Juve, Lazio, Samp, Inter. Da brividi.
E invece: “E invece sono stati alcuni dei pomeriggi più belli della mia vita”. Parola di Pedro, che oggi in Salento e in Italia è di casa e quelle giornate di più di trent’anni fa alla corte di Mazzone le ricorda volentieri. Quarta stagione in giallorosso per Pasculli, quella del 1988-89: “Quando sono arrivato, con Beto Barbas, ero un po’ spaesato. Il presidente Jurlano ci portava a cena ma parlava solo dialetto leccese, non capivamo nulla”. Ma la lingua è un problema da poco per quell’attaccante rapido, furbo e opportunista. Lecce è bella, calda, è sud e Pedro il sud ce l’ha dentro: “All’epoca vincere contro squadre del nord era una gioia ancora maggiore. Farlo al Via del Mare pieno, come quella giornata in cui segnammo io e Checco (Moriero, ndr), era davvero speciale”.
Arrivato dall’Argentinos Juniors nel 1985 alla corte di Fascetti, già nel giro della nazionale, Pedro si ambienta subito, segna 6 gol che però non evitano alla squadra di retrocedere. Intanto viene chiamato al Mondiale in Messico. Il suo compagno di stanza in ritiro? Si chiama Diego, ha il numero 10: e di lì a poco l’iniziale del nome andrà di diritto accanto al numero di maglia, con tutti gli effetti che ne derivano.
L’ultraterreno nel letto accanto, il cielo a portata di dito per Pasculli: “E chi se lo dimentica quel mondiale. Dall’esordio con la Corea al gol contro l’Uruguay che ci ha portato ai quarti, fino alla vittoria finale. Quando senti l’inno della tua squadra diventata campione del mondo ti passano davanti tutte le cose che hai fatto. Le partite da bambino in strada quando sognavi di essere lì e poi la consapevolezza che lì ci finiscono solo 22-23 giocatori ogni quattro anni. È il sogno di tutti, io l’ho realizzato“. Con Diego: “Il più grande, già a 20 anni era con me all’Argentinos e si vedeva cos’era. Ma Maradona era speciale oltre le giocate. Quando venne a Lecce col Napoli, prima della partita venne a salutare me e Beto (Barbas) negli spogliatoi, dopo la partita nelle interviste mi fece i complimenti. Ecco, giochi contro il più grande della storia e alla fine della gara lui pensa a farti i complimenti davanti alle telecamere. Questo era Maradona”.
Diego è nella storia, Pasculli è di sicuro in quella del Lecce più amato: “Il ricordo più bello è la promozione in A con Carletto, che persona straordinaria Mazzone. Un padre, io e Barbas siamo andati anche a casa sua ad Ascoli a mangiare, ci ha aiutato in tutto. E devo dire che ogni tanto era bello pure vederlo arrabbiato, le scene le conoscete, no? Un buono vero, Carletto, una delle migliori persone in assoluto che ho conosciuto”.
Timoniere, Mazzone, di quello splendido Lecce di Pasculli, Barbas, Moriero, Benedetti, Ferri, Carannante, messo su dal vulcanico Jurlano: “Un gran presidente. Pittoresco, ma capiva di calcio. Tant’è che il suo è ancora il miglior Lecce della storia pur non essendo ricchissimo. Mi piaceva perché diceva ciò che pensava, in dialetto leccese però”.
Suona strano, dopo più di trent’anni, parlare di un campione del mondo che fa gol decisivi nel mondiale conquistato, che dimostra ciò che vale nel campionato più difficile e competitivo al mondo, ma che decide di restare in B al Lecce. Più che strano, oggi sarebbe impensabile: “Ma no – dice Pasculli – all’epoca era normale. Non c’erano i procuratori come oggi, i movimenti sul mercato erano pochissimi. Era importante arrivare in Italia perché tra metà anni ’80 e gli anni ’90 era il paradiso del calcio, tutti i campioni erano lì. È vero, comunque, io avrei potuto fare una carriera più importante, mi chiedo cosa sarebbe stato se avessi giocato in una grande. La Fiorentina ci provò con me quando doveva sostituire Diaz, ma sono felicissimo di essere rimasto a Lecce. Certo, nel calcio di oggi farei una ventina di gol a stagione e varrei sicuro una grande”. Sicuro? “Scherzi? Chiedi a un attaccante dell’epoca cosa voleva dire essere marcati da uno come Vierchowod. E non certo per le botte, era uno duro ma corretto. Non ti faceva vedere palla, semplicemente, come tanti altri difensori dell’epoca. Quel calcio era tutta un’altra cosa”.