Tra le conseguenze dell’ingorgo navale ci sarà la corsa ad occupare i maggiori porti mondiali, da Rotterdam a Gedda e Singapore, già intasati. Oltre a tonnellate di beni di consumo, ad essere coinvolte nel blocco sono state anche le commodity. Il cui costo era già a livelli record per effetto di ripresa economica e politiche di stimolo in Usa e Cina. Gli Stati che vivono grazie ai ricavi dalla vendita di questi beni avranno una boccata di ossigeno, ma sono molto vulnerabili alla volatilità dei prezzi
Il blocco del Canale di Suez, anche se risolto, potrebbe essere l’ultima goccia nel già traboccante vaso del mercato delle commodity. Contribuendo ad aumentare la pressione sul rialzo dei prezzi, già a livelli record negli ultimi mesi grazie alla ripresa economica e alle politiche di stimolo di potenze come Usa e Cina. L’aumento delle quotazioni offre una boccata d’ossigeno per i Paesi esportatori colpiti dalla crisi, ma allo stesso tempo mette a rischio i loro conti pubblici: la metà del mondo più fragile, che dipende dall’esportazione delle materie prime, ha infatti già dimostrato di essere vulnerabile alla volatilità dei prezzi delle commodity e ad afflussi improvvisi di capitali dettati da dinamiche non strutturali.
Il caos planetario della logistica – Ripresa la circolazione nel Canale, l’industria logistica globale si prepara ad affrontare le conseguenze dell’ingorgo navale, prima fra tutte la prossima corsa ad occupare i maggiori porti mondiali. Project44, piattaforma che monitora in tempo reale le rotte delle supply chain mondiali, stima il valore al dettaglio dei carichi bloccati in transito in oltre 83 miliardi di dollari. Considerando le deviazioni intraprese da altri convogli e i ritardi delle navi bloccate in Egitto, nelle prossime settimane sarà inevitabile un ingorgo nei porti di sbarco dei container, e sarà così probabile che scali come quelli di Rotterdam, Gedda o Singapore, già intasati per le conseguenze del blank sailing cioè la cancellazione di alcune fermate previste, saranno sopraffatti. Oltre a tonnellate di beni di consumo, ad essere coinvolte nell’ingorgo che ha bloccato centinaia di navi e vettori sono state anche le commodity, e in particolare petrolio e gas naturale. Dopo il rally immediatamente seguente all’incaglio della Ever Given, lo sblocco del Canale ha fatto calare immediatamente il prezzo dell’oro nero, con il greggio Wti del Texas tornato sotto la soglia dei 60 dollari, con un calo del 2,2% a 59,5 dollari al barile, e il Brent del Mare del Nord a 63,3 dollari (-1,9%).
Il Canale di Suez e le materie prime – “L’impatto sulle materie prime va oltre il petrolio e il gas”, ha affermato Derek Langston, head of research del broker navale SSY. “Una serie di portarinfuse utilizza il Canale di Suez per accedere ai mercati chiave in Asia, tra cui il grano del Mar Nero e dell’Europa, il carbone e il ferro del Mar Nero, oltre ai fertilizzanti dal Mar Baltico. Anche le spedizioni di carbone e coke petrolifero dagli Stati Uniti verso l’India usano il canale”. Secondo S&P Global Platts, tra i principali riferimenti per i prezzi benchmark sui mercati delle commodity, il blocco del Canale, pur non determinando un impatto immediato sulle forniture di acciaio e metalli in tutto il mondo, potrebbe contribuire a esacerbare l’attuale pressione al rialzo sui prezzi, in particolare per l’acciaio e il rame. Suez viene infatti utilizzato per le spedizioni di acciaio e materie prime per la produzione di acciaio, inclusi minerali ferrosi e ferro bricchettato a caldo tra il Baltico e l’Asia, compresa la Cina; per i semilavorati di alluminio dal Medio Oriente ai Paesi europei e per le spedizioni di rame dall’Occidente alla Cina.
Ripresa, stimoli e inflazione – Negli ultimi mesi si è verificato su scala mondiale un aumento rilevante dei prezzi di tutte le materie prime: da quelle alimentari, come riso, soia e frumento, che hanno toccati i valori massimi degli ultimi anni, a quelle minerali, come cobalto, nickel, manganese, fino a polietilene, gomma, legno. Diversi i fattori scatenanti: la difficoltà di far viaggiare le merci durante una pandemia, l’incremento dei costi di noleggio dei container, secondo gli operatori in alcuni casi triplicati e quadruplicati, e un improvviso e per certi versi imprevisto ritorno delle richieste. A proposito del petrolio, ha scritto Credit Suisse, “la crisi ha lasciato notevoli lacune nelle spese d’investimento e ha causato il rinvio, se non addirittura la revoca, di nuovi progetti con conseguente riduzione dell’offerta rispetto alla domanda”. Che invece negli ultimi mesi, in alcune aree del mondo, ha ripreso a correre: dopo lo choc globale dello scorso anno, Cina e Usa per esempio hanno sperimentato un rimbalzo nel settore produttivo, che insieme alle politiche di stimolo, come il nuovo pacchetto Usa da 1,9 trilioni di dollari, ha portato rinnovato entusiasmo tra gli investitori, favorendo aspettative di inflazione che gli esperti vedono ancora crescenti, almeno nel breve termine.
La metà del mondo che dipende dalle commodity – Un Paese è considerato dipendente dall’esportazione di commodity se queste rappresentano oltre il 60% del totale delle sue esportazioni. Secondo l’ultima edizione del rapporto “State of Commodity Dependance”, pubblicato ogni due anni dalla Unctad, la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo, più di 100 nazioni al mondo sulle 189 analizzate, cioè il 54% del totale, sono dipendenti dalle commodity. Si tratta di un fenomeno che colpisce prevalentemente i Paesi in via di sviluppo: solo il 13% delle economie dei Paesi cosiddetti sviluppati dipende dall’esportazione di materie prime, mentre questo valore sfiora i due-terzi (64%) per quelli in via di sviluppo e le economie in transizione. A livello regionale, l’89% dei Paesi dell’Africa subsahariana dipende dalle materie prime, rispetto ai due terzi dei Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, alla metà dei Paesi dell’America Latina e dei Caraibi, e dei Paesi dell’Est-Asiatico e del Pacifico. Solo un quarto dei Paesi dell’Asia Meridionale, Centrale e dell’Europa è considerato dipendente dalle materie prime, mentre non ci sono Paesi dipendenti dall’esportazione di commodity nel Nord America. Negli ultimi 20 anni, il numero dei Paesi dipendenti dalle commodity è cresciuto, passando dai 92 del periodo 1998-2002 ai 102 per il periodo 2013-2017, l’ultimo analizzato. In questo frangente si sono ridotti i Paesi dipendenti dall’esportazione di prodotti agricoli, da 50 a 37, mentre sono aumentati quelli dipendenti dall’esportazione di energia, da 28 a 32, e più che raddoppiati quelli dipendenti dall’export di minerali, passando da 14 a ben 33.
Fragilità e nuovi squilibri all’orizzonte – I Paesi in via di sviluppo stanno sopportando il peso della crisi provocata dalla pandemia a causa del “limitato spazio fiscale, dell’irrigidimento dei vincoli della bilancia dei pagamenti e dell’inadeguato sostegno internazionale”, portando ad “alcuni dei più grandi cali del reddito personale rispetto al Pil”, ha dichiarato la stessa Unctad nelle scorse settimane. In questo inedito contesto, dunque, l’andamento delle materie prime assume una rilevanza ancora più importante per gli equilibri di oltre metà del mondo, quella più fragile. Sebbene il rialzo dei prezzi possa fornire una boccata d’ossigeno alle economie di questi Paesi, il rapporto sulla dipendenza dalle commodity evidenzia che i Paesi in via di sviluppo sono più vulnerabili agli choc e alla volatilità dei prezzi delle commodity stesse. Nell’ultimo decennio, con il rallentamento economico, i conti pubblici di molti Paesi si sono deteriorati, con conseguente accumulo di debito estero. E durante il boom dei prezzi delle materie prime, l’improvviso afflusso di entrate pubbliche ha fornito risorse per finanziare l’aumento della spesa pubblica. Ma tali aumenti, dettati da dinamiche di mercato contingenti e non strutturali, hanno già dimostrato di essere difficili da contenere o invertire dopo cali improvvisi. È il caso, per esempio, di Mozambico e Zambia, che hanno visto aumentare la spesa pubblica nel periodo 2011-2016, quando i prezzi di alluminio e rame sono ristagnati oppure diminuiti, dopo gli aumenti degli anni precedenti, determinando un pericoloso incremento del debito estero, più che raddoppiato in percentuale rispetto al Pil.