L’uso del “casco” ventilatorio, quello che tutti noi ci siamo abituati a vedere infilato nella testa dei pazienti con insufficienza respiratoria acuta da Covid, promette bene. La conferma arriva dallo studio italiano “Henivot” appena uscito sul Journal of the American Medical Association (Jama), che vede come primo firmatario Domenico Luca Grieco, rianimatore del Columbus Covid2 hospital (che fa parte dell’Ircss Gemelli), e tra gli altri autori Massimo Antonelli, direttore della Terapia intensiva del Gemelli di Roma.
Il casco, dimostra la ricerca, riduce del 40 per cento il ricorso all’intubazione e alla ventilazione meccanica invasiva, un trattamento che è molto più aggressivo per il paziente. Seppur non accorci la durata del ricovero ospedaliero. L’indagine è stata condotta su un campione di 109 pazienti arruolati tra ottobre 2020 e febbraio 2021 presso quattro unità di terapia intensiva del nostro Paese. “È un dato preliminare ma confortante – sottolinea Grieco -. Per avere risultati conclusivi servirebbe uno studio su un numero più alto di malati ed esteso anche ad altri Paesi”.
Il casco è uno strumento made in Italy, impiegato da più di 15 anni prevalentemente dai nostri rianimatori, e rispetto all’ossigenoerapia ad alti flussi con cannule nasali sembra essere più vantaggioso per i pazienti con ipossiemia grave (cioè l’anormale diminuzione di ossigeno nel sangue provocata dalla polmonite). “Il casco è un approccio tutto italiano. Il suo uso non è frequente all’estero – spiega Grieco – mentre l’ossigenoterapia ad alti flussi è stata finora considerata il gold standard per questi pazienti come indicato dalle linee guida”.
Tuttavia l’indagine evidenzia che, specifica il medico, “al 30 per cento di malati trattati con il casco è stato necessario eseguire l’intubazione tracheale contro il 50 per cento di quelli sottoposti a ossigenoterapia ad alti flussi”. L’intubazione tracheale è una soluzione salvavita ma produce una situazione antifisiologica, “perché la persona viene inizialmente sedata ed essendo la respirazione indotta artificialmente dalla macchina non usa più la muscolatura respiratoria”. Una volta che la persona guarisce per riprendere a respirare bene deve inoltre seguire un percorso di riabilitazione che riabitui i polmoni a lavorare.
Lo scafandro ventilatorio può essere usato in ambiente sia intensivo sia subintensivo. “Il casco ha la funzione di riattivare il tessuto polmonare colpito dal processo infiammatorio causato dell’infezione diminuendo la fatica respiratoria. Ma questi pazienti devono essere strettamente monitorati perché se si aggravano occorre intubarli subito, qualsiasi ritardo potrebbe aumentare il rischio di mortalità. Anche per questo motivo il trattamento non può essere fatto a domicilio ma solo in contesti protetti con personale specializzato”. “Lo studio Henivot, da noi coordinato – ricorda Antonelli – è stato finanziato dalla Società Italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia Intensiva e condotto in collaborazione con l’ospedale di Rimini e le università di Ferrara, Chieti e Bologna. Questa ricerca, come tutto l’impegno profuso durante la pandemia, è frutto dell’enorme lavoro di squadra di anestesisti rianimatori, specializzandi, infermieri e di tutto il personale sanitario coinvolto nell’assistenza dei pazienti con Covid-19 nelle terapie intensive del Policlinico Gemelli e degli altri ospedali coinvolti”.