Media & Regime

Il caso della giornalista Nancy Porsia spiata dai pm di Trapani riguarda la democrazia. Cioè tutti noi

Il caso di Nancy Porsia, giornalista intercettata senza essere indagata, deve produrre una conseguenza: si apra un dibattito e si stabilisca se è valido il principio per il quale il suo lavoro (e con esso la sua vita) è stato monitorato per mesi. Oppure, se valido non è, ed è questo il mio pensiero, sia chiaro il perché, affinché non accada mai più.

Può apparire banale ma così non è: la sua intercettazione è stata vagliata da una procura, su richiesta della polizia giudiziaria, e quindi, prima di essere disposta ha già superato il vaglio di un giudice che l’ha autorizzata. In base a quale principio? Seguendo questo percorso, oltre a comprendere quel che è accaduto a Porsia, e di conseguenza a tutti i giornalisti italiani e per riflesso ai loro lettori, potremo anche comprendere qualcosa in più rispetto a quello che è accaduto nel 2017 e nell’inchiesta di Trapani sulle Ong.

Proviamo quindi a fare il primo passo. Perché Porsia viene intercettata? La risposta è chiara ed è negli atti. Leggiamo un passo della richiesta, avanzata dalla polizia di Stato, di prorogare le sue intercettazioni: “Appare di assoluta importanza prorogare l’attività tecnica in quanto si ritiene che dall’ascolto delle conversazioni tra Porsia e i soggetti con i quali mantiene i contatti nei Paesi del Nord Africa, con particolare riferimento alla Libia e alla Tunisia, si possano acquisire importanti elementi, come già avvenuto nel caso del clan Dabbashi, utili a delineare i contorni dei nuovi network criminali, operanti tra la Libia e la Tunisia, che si stanno affermando sullo scenario della migrazione clandestina verso l’Italia”. In sostanza Porsia, grazie al suo lavoro sul campo – sempre più raro purtroppo – è in grado di fornire notizie utili alle indagini.

Riflettiamo: a chi tocca trovare notizie utili alle indagini giudiziarie? Senza dubbio agli inquirenti. Un giornalista investigativo trova notizie utili alle sue inchieste. Se avesse voluto fare il pm o l’investigatore avrebbe fatto un concorso in magistratura o si sarebbe arruolato tra i Carabinieri, o in Finanza o nella polizia di Stato. Nei fatti la procura di Trapani arruola Porsia, a sua insaputa e senza il suo consenso, come un agente sotto copertura: la ragione investigativa, l’esigenza di individuare dei reati, il bene collettivo della giustizia può prevalere quindi sul diritto di Porsia a fare il suo lavoro senza essere sottoposta a intercettazioni, a vedere frantumato il diritto alla riservatezza delle sue comunicazioni, alle tutela delle sue fonti?

È questo il primo punto da valutare: in sostanza le esigenze di uno tre poteri dello Stato, quello giudiziario, può essere predominante sul cosiddetto Quarto potere? Il Quarto potere, l’informazione, è utile alla democrazia per un solo motivo: controlla gli altri tre. Nel caso di Nancy Porsia l’assunto si è invertito: il potere giudiziario ha controllato, pur non avendo Porsia commesso alcun reato, il Quarto potere? È un principio possibile da accettare? A mio avviso no: ogni giornalista – se fa bene il suo lavoro – è in grado di trovare notizie utili alle indagini. Se questo è il principio, ogni giornalista potrebbe essere intercettato. Anche il direttore di un giornale che magari, per status, ha più facilità a colloquiare con presidenti del consiglio, ministri, generali e via dicendo. Se applicassimo il principio trapanese crollerebbe un pilastro del sistema democratico. Non è soltanto Porsia ad aver subìto un’ingerenza pesantissima: è il concetto e la pratica della democrazia. E questo spiega qualcosa della stagione iniziata nel 2017.

Per la prima volta – almeno così mi risulta – a indagare sull’immigrazione clandestina viene applicato il Servizio centrale operativo (Sco) della polizia di Stato: l’élite dei nostri investigatori, di solito impegnati contro vertici delle mafie, per esempio, e giusto per intendersi. In questo caso si dedicano ai trafficanti di immigrati e soprattutto alle Ong. Ed è già un fatto inedito. Non è il solo. Lo Sco – come tutta la polizia di Stato – dipende dal ministro degli Interni che, in quel momento, è Marco Minniti il quale, proprio in Libia, ha avviato la sua politica di contenimento degli sbarchi. E ha capito che le navi delle Ong in mezzo al mare sono un ostacolo alla sua strategia. Ma c’è di più. A far partire l’indagine trapanese sono gli agenti di sicurezza presenti a bordo della nave Vos Hestia dell’Ong Save the Children. Fermiamoci un attimo a riflettere su un dato. Ed è un dato piccolo ma dirimente.

Chi vi scrive, nel 2017, a indagini in corso, scopre che gli agenti della Vos Hestia, ben prima di denunciare in questura le irregolarità viste a bordo della nave, portano notizie e foto a Matteo Salvini – negli atti si leggerà che ci ha costruito la sua campagna elettorale – e ai servizi segreti. Soltanto dopo si presentano in questura e l’indagine si avvia. Puntano alla gratitudine di Salvini – mirano magari a un posto di lavoro – e una di loro, Floriana Ballestra, ottiene anche un appuntamento con l’assessore regionale Edoardo Rixi, futuro viceministro nel governo giallo verde. In cambio non otterranno nulla. Ma la vicenda è di interesse investigativo: la polizia in quel momento la racconta negli atti di indagine.

Io vengo intercettato con uno degli indagati proprio mentre, senza avere la polizia giudiziaria a darmi informazioni, da giornalista investigativo le trovo per i fatti miei, arrivando al punto di pubblicare gli sms tra Salvini e gli agenti della sicurezza: Salvini è costretto ad ammettere pubblicamente di averli incontrati. Siamo nell’agosto 2017 a inchiesta appena avviata (si badi, l’inchiesta durerà ben quattro anni. Si è conclusa circa un mese fa). A giugno 2018 Salvini prende il posto di Minniti al ministero degli Interni. Domanda: posto che anche io trovavo notizie utili alle indagini (quelle che la polizia di stato menziona nelle informative: gli agenti che cedevano informazioni mirando a qualcosa in cambio), posto che la polizia ne è al corrente perché sono intercettato mentre lo faccio, come mai a me non è stato applicato il metodo Porsia? Come mai non decidono di intercettare direttamente anche me? E soprattutto: questo filone dove e come finisce? I due pesi e le due misure fanno riflettere.

Porsia era utile a trovare notizie – questo è un fatto assodato – in un momento storico particolare: per una coincidenza temporale le sue informazioni erano utili sotto il profilo giudiziario (i magistrati avevano ovviamente l’obbligo di indagare sui presunti reati) e le conseguenze giudiziarie combaciavano con le strategie politiche di Minniti prima e di Salvini poi. E in questo momento storico particolare avviene l’anomalia: Porsia viene intercettata. Tutto questo può essere accettabile? Quale principio giuridico ha prevalso? Quale bene comune ha avuto la meglio sull’altro? A soccombere è stata la libertà di Nancy Porsia di trovare informazioni secondo le regole: è stata spiata e le sue fonti sono state individuate.

C’è però un lieto fine: i giornalisti lo stanno raccontando. Il Quarto Potere controlla il potere giudiziario come tutti gli altri. E ora possiamo discuterne. Ma non si pensi che è un fatto che riguarda solo Porsia. Riguarda tutti i giornalisti. Riguarda la democrazia. Cioè tutti noi. Nessuno escluso.

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