La democrazia è indispensabile per la transizione ecologica? Prima di rispondere scontatamente “sì” – sulla base del fatto che l’interesse generale a vivere in un ambiente sano sia minacciato dagli interessi particolari di inquinatori – vale la pena prestare attenzione a un tallone d’Achille dei sistemi democratici in grado di far vacillare le nostre certezze.
La democrazia elettorale è infatti corrosa da almeno due “tare” in grado di compromettere la qualità del processo decisionale che dagli elettori porta agli eletti, poi dagli eletti alle decisioni, infine dalle decisioni alla valutazione da parte degli elettori. La prima tara è la dimensione prevalentemente nazionale della politica elettorale; la seconda è la dittatura del consenso a breve termine del ciclo elettorale.
Quando si parla di transizione ecologica, le due tare sono in grado di vanificare buona parte degli effetti positivi di un sistema di democrazia rappresentativa. Se la dimensione del problema da affrontare è prevalentemente sovranazionale (per esempio la crisi climatica) o locale (per esempio la gestione del verde pubblico nel quartiere) gli schieramenti partitici nazionali aiutano poco, vuoi per la loro impotenza ad affrontare una dimensione sovranazionale vuoi per la faziosità nell’approccio a questioni che richiedono un pragmatismo di buona gestione sul territorio.
Se l’orizzonte temporale delle soluzioni di governo richieste è scandito dai lustri più che dagli anni – e di questo si tratta quando si parla di clima, di infrastrutture energetiche, di innovazione ambientale – una politica dominata dall’oscillazione quotidiana dei sondaggi, per la quale persino le elezioni locali sono usate per aggiornare i rapporti di forza tra i capipartito a Roma, è condannata a sbagliare i tempi dei propri interventi.
Le fragilità della democrazia elettorale possono favorire modelli alternativi, proprio sull’ambiente. L’intensità tecnologica collegata a ogni solida strategia di transizione ecologica può paradossalmente favorire regimi autoritari consapevoli della posta in gioco. È il modello tecnocratico cinese, fatto di enormi investimenti in ricerca e sviluppo, oltre che di politiche che oscillano tra l’imposizione di disastri ambientali e repentini cambi di rotta, realizzati a velocità e con conseguenze sociali che una democrazia non si potrebbe permettere.
Potrebbe dunque venire il dubbio che un regime autoritario sufficientemente illuminato si faccia trovare più pronto a raccogliere la sfida ecologica – seppure facendo pagare prezzi incalcolabili in termini di diritti negati e libertà conculcate – di quanto non lo siano le stanche democrazie occidentali. Un dubbio del genere, come anche una fideistica aspettativa di superiorità della democrazia, è viziato dal diffuso preconcetto di considerare i termini “democrazia” e “elezioni” come sinonimi, o, in altri termini, di considerare la democrazia elettiva come l’unica forma possibile di collegamento tra cittadini e processo decisionale. Ma non è così.
Esperienze sempre più consistenti in giro per il mondo ci raccontano della crescita ed affermazione di un modello di democrazia deliberativa attraverso il quale il cittadino è coinvolto sì, ma affrancato dall’imperativo del consenso: sono le Assemblee di cittadini estratte a sorte, oltre a ogni altro strumento di partecipazione: assemblee civiche, consulte, dibattiti pubblici, bilanci partecipati, iniziative popolari. L’ingrediente magico che può determinare il successo o il fallimento di queste iniziative si può racchiudere in una parola: conoscenza. Il livello di informazione, consapevolezza, dialogo, che è impensabile garantire a 50 milioni di elettori si può invece realizzare approfonditamente su campioni di poche centinaia di persone.
L’assemblea di cittadini estratti a sorte convocata da Emmanuel Macron per elaborare proposte in materia di transizione ecologica era composta da 150 persone, accompagnate in un percorso approfondito di confronto attraverso facilitatori appositamente formati, con tecnici in grado di prospettare in modo semplificato gli elementi fattuali del problema da affrontare. La stessa proposta è avanzata in Italia dal Comitato “Politici per caso”, che da giovedì 1° aprile raccoglie le firme su una legge di iniziativa popolare per un’assemblea di cittadini estratti a sorte sull’emergenza climatica.
Nonostante la formula magica della democrazia deliberativa non esista e ogni esperienza condotta finora abbia mostrato punti di forza ma anche di debolezza, alcuni tratti comuni lasciano ben sperare, in particolare la marginalizzazione delle posizioni estreme e le discussioni pragmatiche a basso tasso di demagogia. Anche a livello transnazionale la Commissione europea ha proposto ed ottenuto la convocazione di una Convenzione sul Futuro dell’Europa, che avvierà i propri lavori nelle prossime settimane attraverso modalità di coinvolgimento civico ancora da definirsi. Se il modello dell’affiancamento della democrazia elettorale e quella deliberativa prendesse piede anche al di fuori dal recinto nazionale della politica, il metodo democratico potrebbe vivere un nuovo rilancio proprio a partire dai temi che travalicano l’efficacia della sovranità nazionale.
Come ogni strumento al servizio della società, anche la democrazia necessita di innovazione e di sperimentazione. Non ci si deve illudere di affrontare questioni come i cambiamenti climatici appoggiandosi esclusivamente su forme di rappresentanza che hanno già dimostrato l’incapacità di farsi carico dell’interesse generale, e ancora meno dell’interesse delle future generazioni. L’immobilismo istituzionale finirebbe per danneggiare la credibilità stessa del modello democratico in sé, a tutto vantaggio dei poteri autoritari, che già rischiano di uscire rafforzati dalla pandemia.
Siamo ancora in tempo per intervenire. Facciamolo subito. Finora, il confronto sull’utilizzo dei fondi del Next Generation Eu ha riguardato solo una piccola parte di classe dirigente. È ora che la parola passi anche ai cittadini.