Dal Regno d’Italia alla Repubblica. La Prima e pure la Seconda. Un secolo e mezzo di storia costellata da una lunga scia di condoni e sanatorie di tutti i tipi in favore dei contribuenti disonesti. Varati da governi e maggioranze di ogni colore, spesso nel silenzio delle opposizioni. Ché il partito degli evasori è variegato e trasversale. Ma, soprattutto, sposta consensi. Una lezione, del resto, appresa già dagli antichi romani con la favolosa remissio tributi del 118 dell’imperatore Adriano… Il primo esempio di sanatoria in campo tributario risale a poche settimane dopo l’Unità d’Italia, grazie a un regio decreto varato a giugno del 1861: riguardava l’abbuono di pene pecuniarie per omissioni relative alle rendite soggette a tassa di manomorta.
E il Duce? Per lui gli evasori delle imposte erano “i peggiori parassiti della società nazionale”. Tuttavia cancellò una norma chiaramente anti evasione voluta da Giovanni Giolitti, quella sulla nominatività dei titoli azionari, e accordò trattamenti di ultra favore per alcuni ceti produttivi – la quasi completa franchigia agli agricoltori assistiti da una serie di altre importanti provvidenze – oltre che alle famiglie numerose. Caduto il Fascismo, l’andazzo non cambia. La Repubblica d’altra parte si inaugurò con la depenalizzazione valutaria contenuta nell’amnistia del 1946 voluta dal ministro della Giustizia Palmiro Togliatti, poi seguita dall’amnistia del ‘48 per i reati finanziari commessi fino a tutto il 1947, cui si aggiunse un analogo salvacondotto per quelli fino al 1958 e poi ancora amnistia e indulto per i reati tributari compiuti fino al 1966: dall’inizio del secolo fino ai primi anni ‘70 i provvedimenti per mettere una pietra sopra alle pendenze pregresse anche con il fisco furono in tutto 33.
Ma l’epoca d’oro delle sanatorie si aprì nel 1973 con un mega-condono di debiti di imposta accompagnato dalla solita amnistia, giustificati dalla transizione a un nuovo sistema tributario e dalla necessità di abbattere l’imponente contenzioso. Nel 1976 a Palazzo Chigi c’era il diccì Aldo Moro, quando il governo decise di varare uno scudo fiscale ante litteram per il rientro dei capitali che consentì allo Stato di incassare duemila miliardi di lire, assai meno di quanto sperato. Tre anni più tardi il condono venne adottato invece per i debiti previdenziali per consentire ai datori di lavoro di mettersi in regola con l’Inps. Il 7 agosto 1982 fu la volta della legge che, brandendo il bastone delle manette agli evasori, regalava la carota dell’amnistia per reati tributari. Meglio di un gol di Paolo Rossi ai Mondiali, vinti quell’anno dalla Nazionale in Spagna. Nel 1985, sotto Craxi fu la volta della normativa sull’utilizzo dello scontrino fiscale in funzione anti-evasione. Ma con quanta convinzione? Pochissima sicché qualcuno, malignamente, prese a dire che la vera ragione della misura era di fare arricchire l’Olivetti, ditta leader dei registratori di cassa, di cui il ministro Visentini era stato presidente fino a poco tempo prima. Maledette coincidenze.
Nel 1989, il governo guidato dal democratico-cristiano Ciriaco De Mita, si diede un gran daffare: una sanatoria immobiliare, un condono sulla tassa dei rifiuti, uno sugli ex forfettari e un decreto sulle irregolarità tributarie formali. A luglio del 1991 il Ministero delle Finanze guidato da Rino Formica, varò poi un condono tombale per sanare la bellezza di ben 17 anni di imposta, dal 1974 al 1990. E la Seconda Repubblica? Iniziò esattamente come la Prima. Nel 1994 il tandem Berlusconi–Tremonti spalancò le porte al ravvedimento tramite pagamento di un obolo per chiudere le liti pendenti con il Fisco e a una procedura di conciliazione per scongiurare il contenzioso tributario futuro. Col governo tecnico di Lamberto Dini stesso spartito. Nel 1995 il ministro delle Finanze Augusto Fantozzi varò un concordato fiscale di massa. Di cui si avvantaggiò lo stesso ministro. 22 maggio 1997, clima da fossa dei leoni al Senato. Romano Prodi per entrare nella moneta unica riaprì i termini per accedere ad alcuni condoni fiscali pregressi, dal concordato di massa alla sanatoria per la minimum tax – escogitata da Giuliano Amato qualche anno prima – passando per la chiusura agevolata delle liti fiscali pendenti.
Nel 2001 riecco Berlusconi riaprire le danze a Palazzo Chigi con uno scudo fiscale per incentivare il rientro dei capitali dall’estero con la scusa dell’imminente messa in circolazione dell’euro. E poi il condonissimo del 2002: in un sol colpo un concordato, una sanatoria per omessi o tardivi versamenti, un’altra per le scritture contabili, le tasse automobilistiche e soprattutto un condono tombale. E non finisce qui. Nel 2009 ancora Berlusconi, sempre in tandem con Tremonti, concede il bis dello scudo fiscale per tutte le operazioni illecite, anche di imprese estere controllate o collegate, finalizzate alla costituzione delle disponibilità economiche all’estero. Neppure Sua austerità Mario Monti deluse le aspettative: tagli, tasse, sacrifici tali da far addirittura piangere la ministra Elsa Fornero e soprattutto i pensionati colpiti nel portafogli. Alla presentazione del decreto Salva-Italia, una purga per i critici, il nuovo Presidente del consiglio presentò la norma come una rivoluzione: lotta all’evasione a tutto spiano e basta condoni. Peccato per la manina che aveva inserito tra le pieghe del provvedimento la proroga di un anno dei termini di accertamento per i furbetti del condono berlusconiano del 2002 che se l’erano cavata senza pagare tutto il dovuto.
Altro premier, altro giro. Di slot machine. La cui liberalizzazione avviata da Berlusconi prevedeva, tra gli altri, l’obbligo di collegare in rete gli apparecchi per consentire un monitoraggio costante sulle giocate effettuate ai fini del prelievo fiscale. Obbligo, però, che dieci società violarono almeno fino a quando la Procura generale della Corte dei Conti del Lazio decise di citarle in giudizio insieme ad alcuni dirigenti dei Monopoli per non aver vigilato. Causando un gigantesco danno erariale che spinse la stessa Procura a chiedere un risarcimento monstre di 89 miliardi di euro. Ma la Corte dei Conti comminò in primo grado ai gestori delle diaboliche macchinette sanzioni per “soli” 2,5 miliardi. Ed è a questo punto della storia che entra in gioco il governo Letta. Con una norma inserita nel decreto Imu che regalò ai signori delle slot un maxi-sconto fino al 75% sulla sanzione pecuniaria. Risultato: i concessionari se la cavarono pagando appena circa 600 milioni.
Nel 2014 scambio della campanella, a Palazzo Chigi, tra Letta e Matteo Renzi. Che, divenuto presidente del Consiglio, mosse subito i primi passi nella giungla della normativa fiscale con l’introduzione della controversa voluntary disclosure per l’”emersione e rientro di capitali detenuti all’estero”. Fu sempre Renzi a coniare un nuovo genere della letteratura tributaria con la rottamazione delle cartelle esattoriali per regolarizzare i debiti contratti con il Fisco tra il 2000 e il 2015, pagando sì l’intero importo dovuto, ma senza interessi di mora né sanzioni aggiuntive. Un provvedimento bissato nel 2017 dal suo successore, Paolo Gentiloni. Poi emulato con la rottamazione ter pure dal governo gialloverde guidato da Giuseppe Conte. E non è tutto. Perché sempre l’esecutivo Conte I, con la Manovra 2019, ha introdotto anche la possibilità di archiviare le pendenze con il Fisco ricorrendo alla procedura del “saldo e stralcio” senza corrispondere neppure le sanzioni e gli interessi di mora.
Col nuovo premier Mario Draghi ci si aspettava, invece, un cambio di passo. Almeno a sentire il suo intervento sulla fiducia, il 17 febbraio 2021 nell’Aula del Senato, in cui lanciò “un rinnovato e rafforzato impegno nell’azione di contrasto all’evasione fiscale”. Una promessa non mantenuta, smentita appena un mese dopo, dall’ennesimo condono a favore di furbetti e furboni del Fisco, inserito nelle pieghe del decreto Sostegni. E questa volta senza neanche nasconderlo: “Sì, è un condono…”, ha ammesso candidamente l’ex presidente della Bce. Insomma, tutti felici e condonati.
di Primo Di Nicola, Antonio Pitoni e Ilaria Proietti