Cinquant’anni senza Igor’ Stravinskij (Pietroburgo 1882 – New York 1971): la solerte redazione dei Blog de ilfattoquotidiano.it mi sollecita a ricordarlo. Annoto pochi avvenimenti, date sparute. Il 29 maggio 1913 i Ballets Russes presentano a Parigi Le Sacre du printemps (La sagra della primavera). In scena c’è un rito della Russia pagana: gli Anziani osservano una fanciulla, l’Eletta, che per propiziare la primavera danza fino allo sfinimento. Il pubblico reagisce: i ritmi percussivi, la violenza sonora, l’audacia delle armonie lasciano sbigottiti. C’è chi s’indigna e chi si entusiasma. Stravinskij si rifugia nel retroscena. Sergej Djagilev, il direttore artistico, fa accendere e spegnere le luci in sala per sedare il fracasso. Furono più che altro le coreografie di Vaclav Nižinskij a scatenare lo scandalo, ma il Sacre comporta davvero una nuova visione dell’arte. Ci proietta d’acchito nel cosiddetto “secolo breve”.
Il Novecento, nel bene e nel male, è stato un secolo straordinario: guerre, dittature, bomba atomica; ma anche conquista dello spazio, invenzione degli antibiotici, sviluppo di una forma d’arte nuova, il Cinema, capolavori pittorici e architettonici, musiche eccelse. Dal 1909 Stravinskij, russo di nascita e cosmopolita per vocazione, diventa famoso con i suoi primi balletti, dati a Parigi sempre dai Ballets Russes. Allo scoppio del conflitto risiede nella Svizzera francese. La rivoluzione d’ottobre (1917) gli taglia i rapporti con la madrepatria. In Svizzera, con lo scrittore Charles-Ferdinand Ramuz (1878-1947), inventa un teatro ambulante, essenziale: nasce, meravigliosa, L’Histoire du soldat (1918).
Ma piove sul bagnato: arriva la “spagnola”, che fa milioni di morti; lo spettacolo di giro naufraga, il sogno va in fumo. Come ogni cosa al mondo, la micidiale influenza finisce. Igor’ si stabilisce definitivamente a Parigi. Il 18 maggio 1922 va in scena Renard. È una pantomima per clowns, ballerini o acrobati. Ne aveva confezionato il testo in tempo di guerra, Ramuz lo voltò in un francese vernacolare. È la storia burlesca di una Volpe, un Gallo, un Gatto e un Montone, tratta dalle fiabe popolari russe di Aleksandr Afanas’ev (1826-1871).
L’anno dopo c’è l’Ottetto (flauto, clarinetto, due fagotti, due trombe e due tromboni). Nei suoi Dialogues (1963) il compositore ricorda che l’idea gli venne in sogno: in una stanza sentiva suonare otto strumenti a fiato; svegliatosi, si mise a scrivere. In un articolo proclama: “Il mio Ottetto è un oggetto musicale. L’oggetto ha una forma dipendente dal materiale. Non si fa la stessa cosa col marmo o con la pietra”. L’attenzione è concentrata sulla “forma“, non sulle emozioni espresse dalla musica: una poetica radicalmente antiromantica. Nel Finale sostiene di rifarsi a Bach. È il recupero del passato, oggettivato, osservato da lontano. Pieno, sonoro, asciutto, mai freddo. Il gusto dell’antico permea un altro capolavoro, la Sinfonia di salmi (1930), sia nella selezione dei testi, la Bibbia latina, sia nel recupero di forme e stili musicali ieratici.
Fra le due guerre la creatività è al colmo. E dire che i dolori non mancano: lutti e malattie si abbattono sulla famiglia; egli stesso si ammala di tubercolosi. Venti di guerra tornano a spirare sull’Europa. Giunge il momento di cambiare di nuovo. L’emigrante russo naturalizzato francese accetta l’invito a tenere una serie di lezioni a Harvard. È il 1939, ha 57 anni. Non è facile cambiar vita a quell’età, ma se occorre lo si fa. Rimane negli Usa, nel 1945 otterrà la cittadinanza. Nel visitare l’Art Institute di Chicago è affascinato da otto incisioni satiriche di William Hogarth, The Rake’s Progress (La carriera di un libertino). È lo stimolo per concepire un’opera di taglio settecentesco, metà comica e metà seria, libretto di un altro emigrato, il poeta inglese Wystan Hugh Auden. Di nuovo, dunque, cosmopolitismo e recupero del passato. Il lavoro andò in scena alla Fenice l’11 settembre 1951.
Ma c’è una nuova svolta. Nel 1952-53, con il Settimino (clarinetto, corno, fagotto, pianoforte, violino, viola, violoncello) sembra accostarsi ai viennesi del Novecento, alle loro complesse trame seriali, ad Anton Webern in primis. “Ascolto certe possibilità e scelgo. E la mia scelta può cadere sulla composizione seriale come su ogni forma di composizione contrappuntistica tonale. Compongo nella maniera che mi è sempre stata consueta”. È sempre lui, versatile e istrionico, anche quando maneggia scritture e stili che i critici considerano antitetici.
Creatività, impegni e viaggi proseguono ininterrotti fino al 1969. La salute peggiora. Vive in California, è invitato in Italia nel 1970. Prima di far tappa a Parigi, si ferma a New York. Nella notte fra il 5 e il 6 aprile una crisi cardiaca lo stronca. L’emigrante russo, l’artista del mondo, non rivedrà l’Europa. Chiede d’essere sepolto a Venezia accanto al suo antico amico Djagilev. Il cerchio infine si chiude, per sempre.