Ho visto nei telegiornali di questi ultimi giorni le immagini delle file, sempre più lunghe, di persone che chiedono un pasto alle mense della Caritas ed ho sentito dai cronisti che fra di loro si cominciano a vedere sempre più spesso persone diverse dai “soliti” richiedenti, che da anni erano per lo più stranieri. Oggi i nuclei di italiani sono la maggioranza: 52% rispetto al 47,9 % dello scorso anno.
Ho cercato altre notizie diramate dalla Caritas ed ho appreso che “i nuovi poveri” che nel 2020 si sono presentati per la prima volta ai centri di ascolto sono passati dal 31% al 45%. Significa che quasi una persona su due che si rivolge alla Caritas in parrocchia non si era mai vista. Sempre di più sono famiglie con minori, donne, giovani che dal precariato sono passati alla disoccupazione. Ed ho ripensato, con un brivido, alle immagini strazianti del nostro grande cinema del dopoguerra, da “Ladri di biciclette” a “Umberto D”.
Dai monitoraggi effettuati da tutte le Caritas diocesane durante e immediatamente dopo il lockdown e nei mesi estivi, si registra un incremento del 12,7% del numero di persone seguite nel 2020 rispetto allo scorso anno. Il record degli assistiti resta quello dei giorni della lunga chiusura, 450mila persone tra marzo e maggio, con un calo in estate.
L’Associazione – spiega Nunzia De Capite, sociologa e responsabile delle principali ricerche della Caritas – ha più che raddoppiato gli aiuti distribuiti: “A chiedere aiuto sono famiglie che fino all’inizio di marzo mai avrebbero pensato di finire in povertà e di non avere neanche i soldi per fare la spesa”.
Del resto, in Italia, la povertà non è un fenomeno marginale né di breve periodo: da anni l’Istat ci fornisce dati inquietanti, soprattutto per quanto riguarda la cosiddetta “povertà assoluta , che vuol dire “non avere i mezzi per vivere con dignità”. Secondo l’Istat sono in questa condizione 5 milioni di persone, ovvero 1,8 milioni di famiglie, l’8,3% della popolazione residente. Praticamente 1 persona su 12.
E poiché la tragedia della pandemia potrebbe durare ancora a lungo, il numero dei “nuovi poveri” sembra destinato a crescere ulteriormente, travolgendo l’argine alla fame opposto dalla Caritas e rendendo inadeguati anche gli interventi effettuati dallo Stato con varie forme di “ristoro” e di sostegno alle nuove povertà.
Mi sembra una prospettiva inquietante non solo dal punto di vista della pietà umana ma anche da quello della decenza di un paese che è fra i più ricchi del mondo.
Dunque, è forse venuto il momento di chiedere un sacrificio agli italiani che non hanno problemi economici e dispongono di risparmi significativi. Penso che il ricavo di una “piccola patrimoniale” potrebbe essere sufficiente almeno ad affrontare gli aspetti più drammatici della “nuova povertà”, senza dover ricorrere a misure più ardite come il famoso prelievo forzoso sulla liquidità (come dire: le mani del governo nei conti correnti degli italiani) cui fece ricorso il presidente del Consiglio Giuliano Amato nella notte del 10 luglio 1992 (ma va ricordato che vi era stata la svalutazione della lira e che nello stesso tempo Amato tentò il rilancio della economia italiana con una legge finanziaria di 93.000 miliardi, la più importante del dopoguerra).
Coraggio del governo e generosità dei cittadini più benestanti potrebbero così attenuare le sofferenze dei più bisognosi e dare un forte segnale della volontà dell’Italia di affrontare con spirito di solidarietà questa fase così difficile per il Paese. A condizione che il primo e il più severo intervento del governo Draghi in materia economica sia costituito da una serie di misure per combattere sul serio l’evasione fiscale, recuperando il massimo possibile di quei 150 miliardi annui che fanno dell’Italia in Paese con il più alto livello di evasione in Europa.
In tal caso, pur non disponendo nel mio conto corrente – dopo una lunga e intensa vita di lavoro – di somme particolarmente significative, sarei pronto ad accettare un piccolo sacrificio. E molti altri, penso, lo sarebbero come me. E del resto: “Se non ora, quando?”.