Difensori dei diritti umani in carcere, repressione dura del dissenso, decine di esecuzioni e persecuzione degli omosessuali. Tarda ad arrivare il “nuovo Rinascimento” prospettato da Matteo Renzi nel corso del suo ultimo viaggio in Arabia Saudita, Paese che anche oggi, in un’intervista al Corriere, ha definito un “baluardo contro l’estremismo islamico”. Secondo l’ultimo rapporto 2020-2021 di Amnesty International, nel Paese degli al-Saud “si è intensificata la repressione dei diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione. Tra coloro che sono stati vessati, detenuti arbitrariamente, perseguiti e/o incarcerati figuravano oppositori del governo, attiviste per i diritti delle donne, difensori dei diritti umani, parenti di attivisti, giornalisti, membri della minoranza sciita e chi criticava online le risposte del governo alla pandemia da Covid-19. A fine anno, praticamente tutti i difensori dei diritti umani dell’Arabia Saudita conosciuti all’interno del Paese erano stati arrestati o incarcerati“.
Se da una parte il Paese mostra tiepidi segnali di miglioramento, come ad esempio sulla limitazione delle pene corporali come la fustigazione, utilizzate solo nei casi considerati obbligatori per la Sharia, l’impossibilità di condannare a morte i minorenni, tranne quando esplicitamente previsto dalla legge islamica, o la lenta e graduale limitazione del tutoraggio per le donne, dall’altra rimane feroce la repressione nei confronti dei dissidenti, in special modo per coloro che si battono per il rispetto dei diritti umani.
Uno dei punti affrontati proprio da Renzi per giustificare la sua presa di posizione in favore di colui che è arrivato a definire un “amico”, il principe ereditario Mohammad bin Salman, considerato dall’intelligence americana il mandante dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, riguarda la pena di morte. Nella sua auto-intervista con la quale intendeva rispondere agli interrogativi sollevati dai giornalisti riguardo al suo viaggio a Riyad, il senatore di Rignano aveva specificato che “le esecuzioni capitali (in Arabia Saudita, ndr) stanno scendendo da 184, nel 2019, a 27 nel 2020″. Il report dell’organizzazione non governativa, però, evidenzia una situazione ancora molto problematica: “I tribunali hanno fatto ampio ricorso alla pena di morte e le persone sono state messe a morte per un’ampia gamma di reati”. Senza dimenticare che “le autorità non hanno rispettato gli standard internazionali del giusto processo nelle cause che prevedevano la pena capitale, spesso tenendo procedimenti sommari in segreto e senza consentire agli imputati l’accesso alla rappresentanza o all’assistenza legale. I cittadini stranieri spesso non hanno avuto accesso a servizi di traduzione durante le varie fasi della detenzione e del processo”.
Anche il costo del lavoro invidiato da Renzi, per sua stessa ammissione durante l’ormai nota partecipazione alla Davos del Deserto, nasconde storie di sfruttamento e riduzione in schiavitù per quei lavoratori immigrati costretti a lavorare per paghe misere con il sistema della kafala (sponsorizzazione) che impedisce ai migranti di lasciare il paese o di cambiare impiego senza il permesso del datore di lavoro, aumentando la vulnerabilità agli abusi e allo sfruttamento. Sono circa 10 milioni i lavoratori migranti nel Paese gestiti con questo sistema. “Dall’inizio della pandemia – si legge nel report – migliaia di migranti etiopi, comprese donne incinte e bambini, sono stati detenuti arbitrariamente in condizioni molto dure, in almeno cinque centri di detenzione in tutto il Paese. I detenuti hanno affermato di non avere cibo, acqua, assistenza sanitaria, servizi igienici e vestiti adeguati. Le celle erano gravemente sovraffollate e i detenuti non potevano uscire. Le esigenze specifiche delle donne in gravidanza e in allattamento non sono state affrontate. Neonati, bambini e adolescenti sono stati detenuti nelle stesse terribili condizioni degli adulti”.
Dopo aver ricordato i “crimini di guerra e altre gravi violazioni del diritto internazionale” commessi dalla coalizione a guida saudita in Yemen, il rapporto si focalizza sul pugno duro nei confronti dei difensori dei diritti umani. Con un passaggio che rende l’idea della situazione nella quale si trova il Paese: “Le autorità hanno arbitrariamente arrestato, perseguito e incarcerato difensori dei diritti umani e familiari di attiviste per i diritti delle donne per le loro attività pacifiche per i diritti umani, anche ai sensi della legge antiterrorismo e della legge contro i reati informatici. A fine anno, praticamente tutti i difensori dei diritti umani dell’Arabia Saudita erano in detenzione senza accusa o erano sotto processo o stavano scontando pene detentive”.
Bahrain, repressione del dissenso e condanne a morte
Alcuni problemi evidenziati nel capitolo dedicato all’Arabia Saudita si ritrovano anche in quello del Bahrain, altro Paese in cui il senatore Renzi si è recato in visita ultimamente, assistendo anche al Gran Premio di Formula 1. Anche qui, Amnesty ha registrato una dura repressione contro coloro che hanno manifestato pubblicamente, in strada o online, una qualsiasi forma di dissenso nei confronti delle decisioni prese dal governo, con una sistematica limitazione della libertà di espressione. Nel report si ricorda che “il Bahrain non ha media indipendenti. Tutta la stampa e le emittenti nazionali sostengono l’esecutivo e sono di proprietà e/o gestite da persone vicine al governo. Il Bahrain ha utilizzato il pretesto del Covid-19 per reprimere ulteriormente la libertà d’espressione. A marzo, la procura generale ha minacciato azioni penali contro chiunque avesse pubblicato o fatto circolare ‘notizie false’ o ‘dicerie faziose’, con la motivazione che ‘le attuali circostanze’ richiedevano ‘l’appoggio alle agenzie e alle istituzioni dello stato’. Pochi giorni dopo, il ministero dell’Interno ha annunciato che la direzione per i reati informatici aveva incaricato i dipendenti di ‘monitorare e tracciare gli account (dei social network) offensivi’. Coloro che avevano denunciato apertamente le violazioni dei diritti umani, così come i loro familiari, hanno affrontato rappresaglie“.
Anche per quanto riguarda la tortura, si specifica che “la magistratura non è intervenuta in modo efficace per affrontare le denunce di tortura che le erano state sottoposte, malgrado frequenti segnalazioni del fenomeno in luoghi specifici, l’identificazione da parte dei detenuti delle agenzie responsabili e talvolta il nome e il rango dei presunti torturatori. In Bahrain negli ultimi quattro anni non c’era traccia di un qualche procedimento arrivato a sentenza per casi di tortura inflitta allo scopo di estorcere una ‘confessione'”. I tribunali hanno continuato a emettere condanne a morte, in alcuni casi al termine di processi “profondamente viziati”, mentre il governo continua a negare l’ingresso nel Paese agli osservatori indipendenti sui diritti umani.
Egitto: persecuzione dei dissidenti, sparizioni forzate e “tortura dilagante”
C’è infine l’Egitto, Paese al quale l’Italia da anni chiede inutilmente collaborazione nella ricerca di verità e giustizia per l’omicidio di Giulio Regeni e che da 14 mesi tiene in carcere senza un giusto processo Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna arrestato il 7 febbraio 2020 all’aeroporto del Cairo. E qui la repressione del dissenso, inaspritasi dopo il golpe militare del 2013 che ha portato alla guida del Paese il generale Abdel Fattah al-Sisi, ha causato l’incarcerazione di migliaia di oppositori al regime. “Le autorità hanno continuato a punire qualsiasi forma di dissenso, reale o percepito, e hanno represso duramente l’esercizio dei diritti alla libertà di riunione pacifica, d’espressione e associazione. Decine di giornalisti sono stati arbitrariamente detenuti solo a causa del loro lavoro o per avere espresso opinioni critiche. Le autorità hanno anche continuato a limitare severamente la libertà d’associazione delle organizzazioni per i diritti umani e dei partiti politici. Migliaia di persone sono rimaste in detenzione cautelare prolungata, compresi difensori dei diritti umani, giornalisti, politici, avvocati e influencer di social network. Le condizioni di detenzione sono rimaste crudeli e disumane e i prigionieri sono stati privati di cure mediche adeguate, una situazione che ha portato o contribuito ad almeno 35 decessi in carcere o poco dopo il rilascio. Sono state emesse nuove condanne a morte e ci sono state esecuzioni. Le donne sono state perseguite penalmente per reati contrari alla ‘morale’, per il modo in cui vestivano, agivano o guadagnavano denaro online”, si legge nel report.
Alle carcerazioni di massa sono seguiti anche numerosi episodi di tortura e maltrattamenti commessi nei confronti dei detenuti nelle carceri destinate agli oppositori politici: “Le autorità hanno sottoposto centinaia di detenuti, compresi prigionieri di coscienza, a sparizione forzata in località sconosciute – continuano – La tortura è rimasta dilagante nei luoghi di detenzione ufficiali e informali. Gli imputati arrestati in relazione alle proteste di settembre hanno riferito ai pubblici ministeri di essere stati percossi e sottoposti a scosse elettriche dalle forze di sicurezza. L’autorità giudiziaria ha regolarmente omesso di aprire indagini a carico di agenti dell’agenzia per la sicurezza nazionale in merito alle segnalazioni di tortura e sparizione forzata”.
Nelle carceri egiziane, inoltre, “le condizioni di detenzione sono rimaste crudeli e disumane. I prigionieri hanno protestato per il sovraffollamento, la scarsa ventilazione, la mancanza d’igiene e d’accesso ai servizi igienici e l’inadeguata quantità di cibo e acqua potabile. Le autorità hanno torturato alcuni detenuti confinandoli in isolamento per periodi prolungati o indefiniti, in condizioni terribili. Le autorità hanno negato ai prigionieri l’accesso a cure mediche adeguate. Almeno 35 detenuti sono deceduti in carcere o poco dopo il rilascio, in seguito a complicanze mediche e, in alcuni casi, per la negazione di cure adeguate”. Questo mentre i tribunali continuano a emettere “condanne a morte al termine di processi collettivi e iniqui“.