Come era ampiamente prevedibile, la proposta di legge contro gli atti violenti e discriminatori nei confronti delle persone più vulnerabili (omosessuali, donne e disabili) sta segnando il passo al Senato, per quelle solite pervicaci resistenze reazionarie che da sempre misurano l’arretratezza culturale del nostro Paese. La legge Zan, con l’introduzione di tenui reati specifici, codificherebbe finalmente l’inaccettabilità di una serie di comportamenti incivili che feriscono nel profondo la persona. Sarebbe cioè un altro passo di quella “rivoluzione della dignità” (per usare un’espressione di Stefano Rodotà) innescata dai nostri Padri costituenti e tanto difficile da realizzare nel concreto e fino in fondo. Dobbiamo ripetere allora come un mantra che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Se ci spostiamo nelle caserme, un altro grave ritardo nella tutela della dignità lo registriamo per il mancato adeguamento del diritto penale militare alla presenza ormai ventennale delle donne. Sebbene l’art. 51 della Costituzione del 1948 fosse molto chiaro nel prescrivere che “tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di uguaglianza”, l’Italia ha aperto le porte delle Forze armate al reclutamento femminile solo nel 2000, ma da allora non c’è stata alcuna riforma del codice penale militare che tenga conto di questa novità.
In una interessante intervista, che consiglio di ascoltare per intero, rilasciata il 29 marzo scorso a Radio Radicale da Marco De Paolis, Procuratore generale militare presso la Corte d’Appello di Roma, nella rubrica “Cittadini in divisa” di Luca Marco Comellini, il magistrato non ha usato giri di parole: “L’ingresso delle donne nelle Forze Armate ha chiaramente modificato alcuni equilibri interni nelle relazioni tra militari e di questo cambiamento la legge penale militare non ha tenuto conto. E quindi ci troviamo in una situazione piuttosto delicata perché lasciamo scoperto un importante settore delle relazioni tra militari”. Secondo De Paolis non si può più attendere ed è urgente elaborare una normativa che riesca a conciliare i diritti e le esigenze del personale femminile con le particolari funzioni che i militari assolvono.
Il magistrato era già intervenuto sul tema e aveva già chiesto al legislatore di colmare questa grave lacuna normativa nel suo intervento alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario militare dell’1 marzo 2019, muovendo dalla constatazione che “poiché oggi nelle Forze armate italiane sono presenti sempre più donne, gli atti di prevaricazione e di violenza che costituiscono il cosiddetto ‘nonnismo’ spesso si connettono e si associano con una finalità di carattere sessuale“.
È vero, c’è poco da meravigliarsi: l’ordinamento militare è caratterizzato da una “vischiosità” che lo tiene ancora oggi “separato” dalla società e in qualche misura distante dai principi costituzionali. Abbiamo assistito di sicuro a un fisiologico adeguamento ai tempi dopo settant’anni di democrazia, ma c’è ancora tanto da fare. È sufficiente pensare alla questione della libertà sindacale, tuttora di fatto negata nonostante la nota sentenza della Corte costituzionale dell’aprile 2018. Per questo, dobbiamo ripetere come un mantra che “l’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”.