di Alberto Piccinini*
Con la sentenza n. 59 pubblicata il 1 aprile 2021 la Corte Costituzionale ha stabilito che se il giudice dichiara illegittimo un licenziamento economico (per giustificato motivo oggettivo), perché “il fatto è manifestamente insussistente”, deve (e non semplicemente “può”) ordinare la reintegrazione.
Per comprendere la portata della decisione occorre ricordare che lo smantellamento del famoso art. 18 dello Statuto dei Lavoratori iniziato con la legge Fornero (legge n. 92 del 2012) e completato con il Jobs Act (D.lgs. n. 23 del 2015) aveva agito sul duplice fronte del licenziamento disciplinare e del licenziamento economico, prevedendo per entrambi – in caso di accertata ingiustificatezza – un’alternativa tra indennizzo economico e ripristino del rapporto di lavoro. Questa seconda possibilità trova applicazione in presenza di una “insussistenza del fatto”, che nel caso del licenziamento per motivo oggettivo deve anche essere “manifesta”: in tale ultima ipotesi, però, restava comunque al giudice la facoltà di scegliere l’indennizzo economico. È su questo punto che il Tribunale di Ravenna ha sollevato la questione di costituzionalità della norma, accolta dalla Corte per una serie di motivi.
Innanzitutto i giudici della Consulta ricordano che la necessità di circondare di doverose garanzie la perdita del posto di lavoro è rinvenibile nella Costituzione (art. 4 primo comma e art. 35), nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue (art. 30) e nella Carta sociale europea (art. 24): molteplici possono essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato, ma il legislatore è pur sempre “vincolato al rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza”. A questo proposito, considerando che “l’esercizio arbitrario del potere di licenziamento […] lede l’interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore”, la Corte ritiene disarmonico e lesivo del principio di uguaglianza “il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici” palesemente ingiustificati.
Il Tribunale di Ravenna aveva anche evidenziato che il testo dell’art. 18 riformato non prevedeva alcun criterio applicativo idoneo a orientare il potere di disporre o meno la reintegrazione, e la Corte ha considerato fondato anche questo rilievo. Se è vero, infatti, che la discrezionalità del giudice riveste un ruolo cruciale nella valutazione del caso concreto, essa deve comunque basarsi su “puntuali e molteplici criteri desumibili dall’ordinamento”, pena l’irragionevolezza del criterio distintivo adottato, che comporta ulteriori e ingiustificate disparità di trattamento.
E a questo proposito la Corte costituzionale sviluppa una critica nei confronti di un consolidato orientamento della Corte di cassazione che – dopo aver giustamente affermato il diritto alla reintegra nel caso in cui il datore non provi l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore – aveva dedotto, dai principi generali del codice civile, la possibilità di escludere il ripristino del rapporto se fosse risultato eccessivamente oneroso perché incompatibile con la struttura organizzativa assunta nel frattempo dall’impresa.
Questo criterio – per i giudici costituzionali – anziché individuare parametri sicuri rispetto alla possibilità di disporre o meno la reintegra, “presuppone valutazioni comparative non lineari nella dialettica tra il diritto del lavoratore a non essere arbitrariamente estromesso dal posto di lavoro e la libertà di iniziativa economica privata”. Senza mezzi termini si dice che il criterio “per un verso è indeterminato e improprio e, per altro verso, privo di ogni attinenza con il disvalore del licenziamento”, oltre a prestare il fianco a condotte elusive: risulta infatti “manifestamente irragionevole” far dipendere la reintegra da fattori riconducibili a scelte del responsabile dell’illecito.
Infine la Corte costituzionale, pur non mettendo in discussione che il giudice non possa sindacare, in caso di licenziamento economico, il merito delle scelte organizzative del datore di lavoro dovendo limitarsi ad accertare se siano vere e genuine, tuttavia precisa che ‘‘il vaglio della genuinità della decisione imprenditoriale garantisce che il licenziamento rappresenti pur sempre una extrema ratio e non il frutto di un insindacabile arbitrio”. La definizione latina del licenziamento come “ultima soluzione” necessitata, potrebbe mettere in discussione anche il più recente orientamento della Corte di cassazione, secondo cui le ragioni del licenziamento rientrerebbero anche in scelte organizzative finalizzate al solo incremento dei profitti, e favorire un ritorno a quello precedente, che richiedeva invece la ricorrenza di situazioni sfavorevoli non contingenti che imponessero un riassetto organizzativo dell’azienda tale da rendere non eludibile la soppressione del posto di lavoro.
*Avvocato giuslavorista, Presidente dell’associazione Comma2 – Lavoro è dignità (www.comma2.it)