La generazione dei cosiddetti “millennial” è molto incazzata con quella degli altresì detti “boomer“. I primi si aggirano sui trent’anni di età, i secondi vanno dai cinquanta in su. Ho fatto questa “scoperta” concentrando l’attenzione su un’espressione ormai assurta al rango di slogan (o meme, per la Rete): “Ok, boomer”. Va pronunciata con un sapiente mix di sufficienza, supponenza, intento liquidatorio. Della serie: “ok, vecchio, hai detto la tua ma ora togliti dalle scatole, perché non sei titolato per fare la paternale a nessuno”.

Si tratta di un sentimento diffuso a livello planetario, se concentriamo l’attenzione sui paesi benestanti. Tanto da rendere legittima l’espressione di “guerra generazionale”. Ma qual è l’accusa che i trentenni rivolgono agli ultracinquantenni? Non intendo girarci troppo intorno: di avergli preparato un mondo di merda in cui vivere. Sì, un mondo in cui predomina la legge del profitto e della concorrenza esasperata, in cui i giovani possono soltanto sognare le tutele sociali di cui godono i più grandi, perché per loro esistono soltanto flessibilità e precarietà. Quantomeno per quel novanta per cento di ragazzi che non provengono da famiglie benestanti e influenti.

La società che gli ultracinquantenni privilegiati hanno lasciato in eredità, però, è anche quella dell’ecosistema sfruttato ai limiti della sostenibilità, quello degli animali sottoposti ad allevamenti intensivi e trattamenti brutali. Non finisce qui: la società odierna è anche impregnata di “valori” o comunque di una cultura in cui i millennial non si riconoscono. Una società omofoba, sessista, razzista, che ti etichetta come nero, gay, lesbica, donna in un senso negativo e discriminatorio. I millennial vogliono battersi contro i residui di maschilismo, per i matrimoni gay, per colmare il “gender gap”, perfino per superare quelle fastidiose forme di violenza psicologica come il “cat calling”, cioè il voler richiamare l’attenzione di una donna per strada fischiando o emettendo dei versi manco fosse un animale.

In Italia, recentemente, ha suscitato clamore un video del rapper Fedez, in cui l’artista rivendicava la perfetta legittimità che il figlio maschio potesse – volendo – giocare con le bambole, vestirsi come una donna, truccarsi col rossetto eccetera. Tutte battaglie civili a cui spesso i millennial si sentono rispondere con frasi del tipo: “ci sono lotte più importanti, specie in questa epoca di fortissima crisi sanitaria, economica, sociale”. Proprio qui scatta l’espressione di cui sopra: “Ok, boomer“.

Insomma, a essere in discussione è una larga parte del sistema valoriale dell’Occidente, sostanzialmente arrivato alla frutta poiché fondato su pilastri che promuovono discriminazioni, disuguaglianze, privilegi, violenza (sulla natura e sugli animali), etnocentrismo, mortificazione di tutto ciò che è diverso o non conforme al senso comune imposto dalla gerontocrazia dominante. Con tanto di argomentazione finale che non lascia scampo: “cari boomer (si fa per dire, cari…), se continuiamo a vivere questo mondo seguendo il vostro sistema di valori, presto il pianeta non ce la farà più e allora sarà finita per tutti. Per cui, fatevi da parte finché siamo in tempo”.

Per quanto mi riguarda, al netto di alcuni fanatismi buoni solo per i media in cerca di audience (si veda la farneticante “cancel culture”), è evidente che si tratta perlopiù di battaglie degnissime. Semmai a non convincermi è il metodo. Innanzitutto perché divide il bene dal male in maniera manichea: tutti i boomer sarebbero dei nemici dell’umanità e del pianeta, tutti i millennial delle brave persone pronte a ristabilire onestà, giustizia, rispetto eccetera (come se mai avessero prevalso, in quella congrega infausta che chiamiamo umanità). Alla faccia della categoria hegeliana della “distinzione“, fondamentale per cogliere la complessità del reale e mai come oggi dimenticata, nella galassia banalizzante dei social in cui domina la logica binaria del mi piace/non mi piace.

Poi, per una contraddizione duplice (performativa, la definirebbe uno studente di filosofia al primo anno): da una parte la netta suddivisione delle età e delle generazioni è un prodotto proprio della logica commerciale che si dichiara di voler combattere (millenial, boomer, generazione X o Z, sono tutte etichette di cui le imprese si servono per ordinare i propri target di vendita). Dall’altra, l’operazione di etichettamento utilizzata è la stessa che si dice di voler combattere, e per di più si fonda su quella “generalizzazione” utilizzata ogni qual volta ci sia qualcuno da discriminare (gli ebrei, i neri, le donne, gli omosessuali, adesso i boomer, senza alcuna distinzione).

Il punto è questo: si può combattere un “male” utilizzando i suoi stessi metodi? Non si rischia, piuttosto, di compromettere la credibilità della propria battaglia? Più ancora, di fornire in questo modo l’impressione di voler semplicemente (e utopisticamente) sostituire una generazione con un’altra, nella pretesa indimostrabile che quest’altra possegga tutte le carte in regola per risollevare nientemeno che l’umanità? È piuttosto sciocco anche attribuire tutti i mali a una generazione specifica, come se ogni tappa dell’umanità non fosse il frutto di un nuovo stadio evolutivo, quindi il prodotto di molteplici fattori che si sono intrecciati e sovrapposti di generazione in generazione.

Ma soprattutto, ha senso legittimare un nuovo elemento divisivo della popolazione, quando ormai è evidente che ci troviamo di fronte all’ennesimo stadio della lotta di classe, ampiamente vinta da un capitalismo oligarchico e oppressivo? Si opera a favore di quest’ultimo, o tutt’al più per la causa esclusivamente individuale di chi cerca facile ribalta mediatica, applicando la logica sterile dell’”ok, boomer”.

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