“Sul piano dell’immigrazione noi esprimiamo soddisfazione per quello che fa nei salvataggi la Libia che aiutiamo e assistiamo. Ma il problema non è solo geopolitico, è anche umanitario e in questo senso l’Italia è uno dei pochi paesi che tiene attivi i corridoi umanitari”. Così – nella conferenza stampa organizzata a Tripoli lo scorso 6 aprile con il premier libico Abdulhamid Dabaiba – il Presidente del Consiglio Mario Draghi valuta la collaborazione in ambito migratorio tra Italia e Libia. Due brevi frasi scandite con il consueto tono autorevole e quel sorriso appena accennato e così anglosassone, dentro il suo abito scuro impeccabile. Con quel candore disarmante che in pochi secondi esprime, tra le righe, molto di più.

Con la prima frase, ci mette davanti ad una realtà evidente, ineluttabile, difficile da accettare ma granitica: ovvero che per “riportare l’interscambio economico e culturale ai livelli di 5-6-7-8 anni fa,” l’Italia in questi anni è stata pronta a tutto e lo è tuttora, anche a costo di chiudere gli occhi sul rispetto dei diritti umani. Una discontinuità che quindi diventa solo di stile comunicativo, non di linea politica, non di sostanza.

Anche se quello che non si vuol vedere è lampante: dal 2017 l’Italia ha speso 785 milioni di euro tra missioni navali nel Mediterraneo e in Libia, ma 6.700 persone sono morte in mare e almeno 55.000 sono state intercettate e riportate in Libia dalla cosiddetta Guardia Costiera, di cui quasi 12.000 nel 2020 e la cifra record di oltre 5.900 da inizio 2021. Uomini, donne e bambini finiti in quei centri di detenzione (e non di “accoglienza”, come li chiama l’ex ministro Marco Minniti) dove abusi e torture da anni sono sotto gli occhi dell’opinione pubblica mondiale.

Mettere la testa sotto la sabbia libica

Una realtà orribile che non vogliamo vedere perché nel mondo della realpolitik – quello in cui noi “anime belle” siamo considerati dei naif – funziona così: per i grandi contratti di politica energetica, le grandi infrastrutture, i servizi finanziari per realizzare tali affari, serve fare le offerte migliori e soprassedere su qualcosa, soprattutto quando può risultarci utile e quando nel mercato sono entrati nuovi concorrenti, magari non così sensibili al rispetto dei diritti umani, come la Turchia ad esempio.

Con la seconda frase invece si fa invece confusione, perché al tema del contenimento dei flussi migratori e delle intercettazioni libiche, Draghi oppone quello dei “corridoi umanitari”. Un punto su cui occorre fare chiarezza. I “corridoi umanitari” sono un’iniziativa della società civile italiana, regolata con un accordo tra organizzazioni che hanno deciso di promuoverla e lo Stato. Sono interamente a carico delle organizzazioni proponenti e hanno una natura complementare rispetto alle iniziative che invece possono mettere in campo gli Stati.

Gli Stati possono per esempio concorrere, in collaborazione con l’Unhcr, al reinsediamento dei migranti verso un paese terzo, oppure al ritorno volontario nel proprio paese in condizioni dignitose e sicure, oppure all’integrazione locale nel paese dove si trova la persona. Draghi avrebbe semmai dovuto parlare di reinsediamento, e se non lo ha fatto una risposta forse sta nei numeri.

Dal 2017 sono state reinsediate dalla Libia 66 persone

Dal 2017, infatti, l’Italia ha reinsediato dalla Libia 66 persone: 44 nel 2018, 16 nel 2019 e 6 nel 2020. Proprio nel 2020, secondo il nuovo piano europeo di reinsediamento, il nostro Paese si era impegnato ad accogliere 700 persone, di cui 75 dalla Libia (dove senza considerare tutte le persone vulnerabili, i rifugiati registrati sono 43 mila) e 75 dal Niger. Ma perché non è corretto mettere sullo stesso piano il “buon lavoro” dei libici nel Mediterraneo, sia con i corridoi che con il reinsediamento? Semplice, le politiche di ingresso non possono limitarsi solo ai casi dei più vulnerabili a cui i corridoi umanitari sono destinati, mentre le persone intercettate in mare dai libici non entrano in un circuito che promuove la difesa dei loro diritti o la loro protezione. Al contrario – non smetteremo mai di denunciarlo – finiscono in un inferno, finanziato anche con soldi nostri.

La necessità di interrompere la logica della delega

Al contrario di quanto prospettato, ricordiamo quindi al Presidente Draghi quanto la soluzione sia complessa ed articolata e debba partire dal capovolgimento della logica che finora ha sorretto le nostre politiche. Serve la gestione dei flussi, non la chiusura, agire in prima persona e non delegare ad altri.

Una direzione che, come Oxfam, riteniamo possa essere intrapresa solo con una serie di interventi molto concreti: superando la Bossi-Fini ed estendendo i canali di ingresso regolari; approvando un piano di evacuazione delle persone detenute illegalmente in Libia; istituendo una missione navale europea con chiaro compito di ricerca e salvataggio delle persone in mare; riconoscendo il ruolo fondamentale delle organizzazioni umanitarie nella salvaguardia della vita umana in mare. Infine, interrompendo l’accordo Italia-Libia e subordinando qualsiasi futuro accordo alla fine della fase di transizione politica nel paese, nonché alle necessarie riforme che eliminino la detenzione arbitraria e prevedano adeguate misure di assistenza e protezione, in particolare per migranti e rifugiati.

Su tutti questi temi occorrerebbe uno scatto da parte del Parlamento, anche se la conformazione della maggioranza di certo non aiuta. Chissà se quantomeno si avrà il coraggio di istituire una Commissione di inchiesta, che indaghi sul reale impatto dei soldi spesi in Libia e sui naufragi nel Mediterraneo. Giusto per fare un check up della nostra realpolitik.

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