Centovent’anni dalla nascita del più grande, del migliore tra gli imprenditori italiani non sarebbero una data da far passare solo tra celebrazioni e chiacchiere. Meriterebbero qualcosa di più concreto, anche se fino a pochi anni fa il silenzio sulle vicende della Olivetti e del suo massimo artefice era assordante, forse perché il “cadavere” dell’azienda di Ivrea, distrutta improvvisamente dai suoi successori, era ancora caldo. Ma ne è passata di acqua sotto i ponti di Mediobanca, Confindustria, Telecom, Parmalat, Fiat, Lehman Brothers, Mps.

Oggi molti parlano di “economia sociale”, di “valore sociale delle imprese”, e la figura di Adriano Olivetti è più di moda, c’è stata perfino una serie televisiva Rai a lui dedicata, è un eroe consacrato. Peccato, però, che solitamente gli eroi non amino i bei discorsi commemorativi, fuggano il fumo e preferiscano l’arrosto cui dedicarono e sacrificarono la loro intera vita, e vorrebbero vedere messo in pratica almeno un po’ di quello che di loro oggi tutti elogiano, non senza ipocrisia.

Di Adriano Olivetti, prematuramente scomparso nel 1960 e della sua Olivetti ci sarebbe da parlare all’infinito e non è proprio il caso. Per fortuna esistono ormai molti lavori, numerose testimonianze scritte e verbali che lo attestano inequivocabilmente: così chi volesse approfondire, non tema, potrà farlo compiutamente. Tra i molti libri consiglio prima di tutto la lettura dei suoi scritti, che sono numerosi ed eloquenti, e poi certamente qualcuno dei molti lavori di Franco Ferrarotti, forse il più grande tra i sociologi italiani, un uomo che ebbe la fortuna di lavorare a stretto contatto con Adriano Olivetti.

In estrema sintesi, l’Olivetti di Adriano fu una grande scuola di libertà e responsabilità imprenditoriale, ricca di inventori, votata alla sperimentazione e al rischio totale d’impresa. Un’impresa di mondiale successo, commerciale ed economico. Azienda miracolosa ma concretissima, capace di perseguire e realizzare apparenti sogni e coronarli con la leadership sui propri mercati di riferimento. In grado di valorizzare al massimo gli uomini e le donne che ebbero la fortuna di lavorarci.

Coerente nella pratica e nella teoria, autentica nella comunicazione, trasparente nella produzione e nella gestione. Capace di anticipare qualsiasi programma sociale, con i suoi asili, le sue scuole, la sua formazione permanente, i suoi investimenti per la ricerca, la sua attenzione al territorio come alle singole persone, la sua promozione per la cultura, la sua concezione dell’impresa come struttura complessa finalizzata allo sviluppo. Una macchina da profitti e prodotti di avanguardia a beneficio di tutti, non solo per le tasche o il benessere (apparente e momentaneo) di alcuni.

Una vera mosca bianca nel panorama dell’imprenditoria, anche istituzionale, italiana, avversata e perfino ostacolata dalla stessa Associazione di categoria del tempo. Una storia gloriosa, ma anche triste e dolorosa. La prova provata delle infinite possibilità del nostro paese e della sua gente, ma anche il documento delle nostre bassezze, delle miserie infinite dei presunti grandi.

Per questo l’anniversario della nascita di Adriano Olivetti non dovrebbe passare inutilmente, in clausura tra ricordi e celebrazioni. Così, visto che l’attuale Governo presieduto da Mario Draghi ha annunciato di voler mettere mano a una radicale e moderna riforma fiscale – che dovrebbe coinvolgere anche il trattamento da riservare alle imprese – una rinfrescatina sui principi pratici fondatori dell’impresa olivettiana non fa male, ancor meglio se alcuni di questi principi fossero messi nero su bianco negli annunciati provvedimenti fiscali.

Perché non tutte le imprese sono uguali e non è ragionevolmente giusto che quelle virtuose, quelle che realmente contribuiscono allo sviluppo economico del paese al benessere generale, siano trattate dallo Stato allo stesso modo dei molti imprenditori-prenditori, dei take the money and run, di quei soggetti che non meritano nemmeno di essere chiamati con quel nome, ma volgari affaristi, approfittatori, cercatori di denaro senza fatica, anche a danno della collettività. È in particolare per questi che la campana di Olivetti ha suonato e continua a suonare.

Così, ad esempio, la nuova disciplina fiscale potrebbe trovare il modo di separare i destini delle imprese che investono in innovazione, cura, formazione e trattamento del personale da quelle che invece, pur di portare denaro in tasca agli azionisti (ovviamente solo quelli di maggioranza), sono disposte a tutto, a destinare dividendi anche se l’azienda perde, a licenziare al minimo calo dei fatturati, o peggio a delocalizzare, a credere di poter ritagliare i profitti attraverso artifici fiscali, spostando le società di controllo all’estero o nei paradisi fiscali. O, infine, di quelle che strapagano manager e parenti dei proprietari con compensi 500-1000 volte pari alle retribuzioni dei dipendenti, salvo poi portare bilanci nel medio lungo termine in rosso. Con questo modello di imprese il fisco non dovrebbe avere nessuna pietà, meglio tutti a casa e cambiare mestiere che lavorare in queste condizioni.

Dalla prossima riforma fiscale finalmente potremmo quindi aspettarci che non tutti i titolari di azienda vengano trattati allo stesso modo, perché anche se è notte non è vero che tutte le vacche sono dello stesso colore. Le imprese – alla Olivetti – che fanno profitti perché investono e innovano si prendono cura del territorio e del personale, e meritano non solo di essere sostenute con tutte le nostre forze, ma di essere incentivate attraverso una riduzione, meglio ancora un totale azzeramento delle imposte e dei fardelli burocratici.

Premiamo il bene e le virtù delle imprese, che non mancano. Puniamo invece quanti dimostrano di credere che la professione di “imprenditore” sia poco più che una scorciatoia per ottenere ville, automobili di lusso e amanti a spese degli altri che lavorano. Tutti devono sapere che lo Stato non ha nessuna simpatia per loro, perché nel lungo periodo costoro fanno solo danni, distruggono valore. Lo Stato siamo noi, tutti noi, che abbiamo a cuore il benessere generale e quindi abbiamo il dovere di darci leggi che meglio realizzino questi obiettivi.

Basta volerlo, si può. Sarebbe l’unico modo degno per ricordare l’anniversario di Adriano Olivetti: che il suo esempio di successo ispiri le altre imprese, e anche… il Fisco.

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