Quando le autorità saudite annunciarono, nel 2018, che i minorenni condannati a morte sarebbero stati salvati dall’impiccagione, precisarono che il provvedimento non avrebbe riguardato tutti i reati.

Il provvedimento è entrato in vigore nel 2020 per molti, compresi il nipote del noto sceicco al-Nimr e altri due compagni di prigionia, ma per Abdullah ah-Huwaiti potrebbe non valere. Arrestato nel maggio 2017 quando era poco più che quattordicenne, al-Huwaiti è stato sottoposto a un processo irregolare basato su una confessione fatta sotto tortura e, nell’ottobre 2019, condannato a morte per rapina a mano armata e omicidio. Gli altri cinque co-imputati sono stati condannati a 15 anni di carcere e mille frustate.

Secondo gli atti del processo, il 5 maggio 2017 al-Huwaiti sarebbe entrato in una gioielleria della città di Duba, nella provincia di Tabuk, vestito da donna e con due armi da fuoco nascoste sotto un’abaya nera. Nel corso della rapina avrebbe ucciso due commessi e un poliziotto per poi fuggire sull’auto della polizia, su cui sarebbero state rinvenute tracce del suo Dna.

La difesa di al-Huwaiti ha fatto ricorso alla Corte suprema per chiedere l’annullamento della condanna a morte. Oltre a denunciare le torture subite dal ragazzo nei primi quattro mesi di prigionia, peraltro trascorsi illegalmente in una struttura detentiva per adulti, gli avvocati di al-Huwaiti hanno dalla loro parte le immagini di una telecamera di sorveglianza che lo avevano ripreso, mentre era in corso la rapina, in un luogo distante dalla gioielleria, nonché le dichiarazioni rese in un’udienza dal generale Waleed al-Harbi, cui inizialmente erano state affidate le indagini e che poi era stato misteriosamente sollevato dall’incarico: “Ci sono vari elementi che smentiscono quanto l’imputato ha confessato durante gli interrogatori”.

Aggiornerò le lettrici e i lettori di questo blog sull’esito del ricorso.

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