La Divina Provvidenza, col richiamarci nei nostri Stati dopo una lunga assenza, ci ha imposto dei grandi obblighi. La pace era il primo bisogno dei nostri sudditi: ce ne siamo occupati senza indugio; e questa pace tanto necessaria alla Francia come al resto dell’Europa è firmata. Una Carta costituzionale era richiesta dall’attuale stato del Regno; noi l’abbiamo promessa e la pubblichiamo. È l’imprinting della Charte octroyée, Costituzione libera e monarchica, voluta da Luigi XVIII nel 1814 ed entrata in vigore nel 1815, dopo la definitiva uscita di scena di Napoleone Bonaparte.
Questo riferimento lontano ben si adatta oggi a interpretare, con ovvie sostanziali differenze di contesto storico e istituzionale, la situazione politica da “stato d’eccezione” del nostro Paese, il quale si trova a registrare da oltre dieci anni sistematici cambiamenti negli assetti di governo, il succedersi di Presidenti del consiglio scelti non sulla base di chiare maggioranze elettorali, bensì su un costante stato di necessità, risultante da eventi per lo più esterni alle istituzioni parlamentari, fondamentalmente riconducibili a dinamiche di potere interne/esterne ai partiti, non leggibili se non in trasparenza, mai con chiare connotazioni programmatiche e sociali.
L’ultima crisi che ha condotto alla formazione del governo Draghi è stata paradigmatica in questo senso, ma non è certo la prima. L’attuale dinamica cominciò nel 2011 con la cacciata dal governo Berlusconi, conseguente la crisi del debito pubblico, ad opera di un diktat formalmente emanato dal vertice europeo (il Trio Merkel-Sarkozy-Trichet) e la longa manus del presidente della Repubblica pro tempore che non voleva intestarsi ufficialmente lo sfratto. Venne Monti nominato da Napolitano e furono lacrime e sangue.
Alla fine nel 2013 si andò a votare e sembrava che con la fine del berlusconismo dovesse vincere a mani basse il centrosinistra, ma ci si mise di mezzo Grillo e la “non vittoria” di Bersani portò come corollario la fucilazione alle spalle di Prodi ad opera dei misteriosi (ancora oggi almeno formalmente) centouno franchi tiratori del Pd, che affondarono definitivamente anche il segretario del partito ed aprirono ufficialmente l’avvento dell’uomo di Rignano.
Napolitano fu rieletto “suo malgrado” alla presidenza della repubblica e così immediatamente, quasi per magia, l’appena nominato segretario del partito si ritrovò presidente del consiglio, dopo un paradigmatico “Enrico stai sereno” indirizzato con la punta avvelenata al mite Letta da poco insediato al governo. Risparmiamo un resoconto dei tre anni renziani tra 80 euro, cancellazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, buona scuola e riforma istituzionale, sappiamo come andò a finire: che il partitone a vocazione maggioritaria precipitò al 18% e cominciò l’epopea dei governi Conte.
La crisi del secondo governo Conte, provocata dalla fuoriuscita dalla maggioranza del gruppo Italia Viva di Renzi a onta della pandemia e dell’emergenza sanitaria, ha avuto uno svolgimento da blitzkrieg (guerra lampo) con l’accompagnamento di un’inusitata campagna stampa di demolizione del governo: proclamata ufficialmente circa a metà gennaio, si è conclusa dopo infruttuosi tentativi di resistenza il 13 febbraio, con il passaggio di consegne da Conte a Draghi. La caduta di Conte ha provocato dopo pochi giorni le dimissioni del segretario del Pd Zingaretti, colpevole di averlo convintamente sostenuto, sottoposto anch’egli ad un fuoco di fila di attacchi dall’interno del partito e dal solito coro di giornali e opinion maker, portando così all’avvicendamento e al ritorno dell’esiliato Enrico Letta, prima vittima delle congiure renziane. Uno scenario da congiura de Pazzi, del 1478 sempre di toscana memoria, orchestrata dagli alleati del Papa per liquidare i Medici.
Le ragioni politiche, programmatiche, strategiche di questo pandemonio non sono ancora oggi chiaramente comprensibili, se non per il fatto che i gruppi di potere intorno a Matteo Renzi, posizionati fuori e dentro il Partito democratico, intendono fermamente riprenderne il controllo, anche perché l’esperimento di Italia Viva è fallimentare e pertanto l’unica prospettiva è riguadagnare internamente la centralità perduta.
I segnali di questo progetto sono visibili anche a Bologna, dove improvvisamente viene avanzata la candidatura a sindaco della città alle prossime elezioni comunali dell’attuale sindaca di San Lazzaro di Savena, la giovane amministratrice Isabella Conti, renziana della prima ora, anch’ella uscita dal Pd con Italia Viva, in contrapposizione al candidato più quotato del Pd Matteo Lepore. A Bologna e in Emilia Romagna, cuore pulsante del Pd, secondo una regola non scritta ma ferreamente applicata finora, mai una personalità uscita dal partito ha avuto alcuna possibilità di ricoprire incarichi di rilievo e di elevata visibilità. Sarebbe la prima volta, ma si avverte anche in questa occasione che stanno scendendo in campo variegate ed estese forze a sostegno dell’ipotesi che determinerebbe una frattura senza precedenti nel corpo sociale ed elettorale di Bologna.
È il paradosso di un partito che ha fatto dell’unità il suo totem ideologico, che sta subendo a causa delle sue contraddizioni irrisolte, per legge del contrappasso, le più variegate scissioni, che oggi corre il serio rischio di essere definitivamente “scalato” da componenti moderate, di emanazione imprenditoriale e professionale, che detengono già un fortissimo potere d’influenza e solide ramificazioni dentro il partito.
A Bologna fortunatamente però c’è anche un forte rassemblement di sinistra, che ha raccolto buoni consensi alle precedenti amministrative, la Coalizione civica, guidata da una giovane e brillante avvocatessa, Emily Clancy, con Federico Martelloni, coalizione che si è rafforzata ulteriormente alle recenti elezioni regionali con la lista Coraggiosa guidata da Elly Schlein, che a Bologna ha raggiunto circa il 9% e che oggi rappresenta una realtà molto solida. Un potenziale alleato a sinistra che non farà sconti sui contenuti politici e programmatici di un’eventuale alleanza.