Perfino in un Paese spensierato come questo risulta sorprendente che la morte delle afghane uccise dai Taliban non impressioni neppure le femministe. Non se ne parla. Fatte salve le solite eccellenze (Dacia Maraini e poche altre) si direbbe che la sorte di 16 milioni di afghane, in bilico tra l’avanzare verso un minimo di libertà e il ripiombare nella prigionia talibana, non appassioni.

Parte di questa indifferenza probabilmente si può addebitare ad un’informazione annebbiata. Si legge di tutto, perfino che l’emiro dei Taliban, il mullah Omar, proibì alle donne scuola e lavoro perché all’epoca non vi erano spazi sufficienti per separarle dai maschi.

Ero a Kabul quando Omar emise il suo editto, la mattina successiva andai all’orfanotrofio di Kabul: sparite le assistenti sociali e le inservienti, un ragazzo frastornato, unico dipendente maschio, doveva badare a 500 bambini affamati. Gli lasciai una manciata di dollari per comprare un camion di mele e andai nell’ufficio della mezzaluna islamica, la Croce rossa afghana. Si era appena insediato il nuovo capo, un mullah giovane, grasso e sprezzante. Mi disse che sfamare i bambini dell’orfanotrofio non era un problema loro, se ne occupassero gli occidentali.

Poiché questo era il senso del bene comune presso i Taliban, negli anni successivi decine di migliaia di bambini afghani morirono perché l’emirato non provvedeva a proteggerli da malattie banali: semplicemente, se ne disinteressava. In quel periodo altri afghani, soprattutto di etnia hazara, tagica e uzbeca, furono uccisi perché avevano osato ribellarsi ad un regime che guardava con sospetto chiunque non fosse pashtun, sunnita praticante e fondamentalista di scuola Deobandi. Nondimeno oggi si legge che i Taliban sono eroici patrioti in lotta con l’Impero, partigiani impegnati in una guerra di liberazione.

È così? L’asse portante del “movimento” è la Rete Haqqani, il network di Sirajuddin Haqqani, capo delle operazioni militari dei Taliban e figlio di quel Jalaluddin che fu uno dei principali strumenti con i quali l’Isi, lo spionaggio pakistano, montò la guerra santa contro i sovietici. Le forze armate pakistane hanno costruito anche i Taliban, cui tuttora garantiscono rifornimenti di armi, un retrovia nelle montagne pakistane, probabilmente una via sicura per esportare l’oppio, e all’occorrenza il sostegno di quei mujahiddin che Islamabad impiega d’estate in Kashmir contro i non meno brutali soldati indiani.

Nel frattempo i Taliban si sono trasformati in una costellazione di bande sulle quali l’emiro ha un controllo fiacco. Così accade che nei negoziati di Dubai i suoi delegati accettino il diritto delle bambine afghane all’istruzione, ma poi sul terreno le cose vadano diversamente, e ciascun comandante decida secondo le proprie convinzioni. Alcuni permettono, altri chiudono le scuole. Meno controverso pare l’assassinio di afghane che osano lavorare. Nelle ultime settimane sono state uccise prima tre giornaliste, poi tre ragazze che praticavano le vaccinazioni contro la polio, infine una poliziotta. Anche i giornalisti maschi sono tra i bersagli privilegiati, eliminandoli il “movimento” conferma di attribuirsi il monopolio della verità. Più spesso muoiono poliziotti, sterminati nei commissariati con bombe che fanno strage anche di cittadini.

I Taliban non rivendicano ma non si dubita che questo vasto ammazzare anticipi cosa diventerebbe l’Afghanistan se vincessero loro. Hanno rifiutato le elezioni, che perderebbero, e per lanciarsi sulla capitale contavano nella promessa di Donald Trump, il primo maggio gli americani dovevano cominciare il ritiro totale e definitivo. Anche se le truppe Nato sparissero, i Taliban non sarebbero in grado di prendersi tutto il Paese, neppure con l’aiuto del Pakistan. Ma lì dove sono forti continueranno ad ammazzare poliziotti, giornalisti e femmine ribelli.

Gli applausi della loro piccola claque italiana appartengono al folclore della nostra informazione, ma rimbombano nel silenzio di quella parte della politica e del giornalismo che in queste vicende dovrebbe vedere in gioco i propri ideali. D’accordo, l’Afghanistan è remoto, le soluzioni dubbie. Ma è come se si desse per scontato che i diritti delle afghane, in quanto musulmane e cittadine di un Paese arretrato, siano un caso disperato. O magari si dubita che per quelle donne la libertà sia un valore. “Il burqa appartiene alla cultura della afghane” ripeteva Gino Strada nella Kabul liberata dagli americani, a lasciar intendere che nulla sarebbe cambiato nella condizione delle afghane.

Stavano meglio quando stavano peggio? “Sotto il burqa adesso c’è la speranza, e questo è straordinario” mi aveva detto in quei giorni l’energica britannica che dirigeva l’ospedale di Emergency a Kabul. Questo non toglie che sotto molti burqa la consuetudine con la sottomissione sia diventata rassegnazione, e col tempo perfino un valore “morale” da opporre alle ragazze indocili. Ma sono queste ultime, le ribelli, che faranno il futuro e la storia.

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