L’Unione Europea è ad un bivio: di qua il superamento della pandemia e l’avvio attraverso la COFE (la Conferenza sul Futuro dell’Europa) di una nuova fase costituente che rafforzi le sue Istituzioni democratiche, rendendole ancor più adeguate alle sfide globali. Di là il ritardo colpevole nel superamento della pandemia, il fallimento della COFE e il conseguente probabile declino delle Istituzioni democratiche europee.

Come in ogni partita c’è chi tifa e tira da una parte e chi dall’altra. Tifano per il declino sicuramente le mafie italiane che si trovano in buona compagnia nel territorio dell’Unione Europea, non essendo la pratica del crimine organizzato una esclusiva italiana e nemmeno lo specifico metodo mafioso.

Secondo il report SOCTA (2017) di Europol, più di 5.000 gruppi di criminalità organizzata sono attualmente sotto indagine in Europa. La criminalità organizzata è guidata dal profitto e le sue attività illegali generano enormi guadagni: i proventi della criminalità organizzata all’interno dell’Ue sono attualmente stimati in circa 110 miliardi di euro all’anno. Nell’Unione Europea attualmente solo il 2% circa dei proventi di reato sono congelati e l’1% circa confiscati. Ciò consente ai gruppi della criminalità organizzata di investire nell’espansione delle loro attività criminali e nell’infiltrazione dell’economia legale. Europol stima che tra lo 0,7 e l’1,28% del Pil annuo dell’Ue è coinvolto in attività finanziarie sospette (fonte tratta dal rapporto FattiperBene pubblicato da Libera).

Le organizzazioni criminali di stampo mafioso non sono organizzazioni sovversive, nemmeno quando temporaneamente e strumentalmente ne vestono i panni come nel caso della stagione delle leghe indipendentiste del nostro recente passato. Le mafie sono parassitarie fino a diventare eversive: fiaccano il potere pubblico per poterne abusare, svuotandolo così della propria autentica missione.

Se trasferiamo questo principio su scala europea, i conti non tardano a tornare: le mafie non scommettono sulla disgregazione dell’Ue, scommettono piuttosto sulla sua debolezza per poter massimizzare i loro profitti illeciti, approfittando di un ecosistema florido ed ingenuo, quando non complice come le storie di Jan Kuciak e Daphne Caruana Galizia suggeriscono.

Le ricchezze accumulate attraverso i traffici illeciti sono un eccellente test. In Italia disponiamo di un’arma micidiale per colpirle: le misure di prevenzione patrimoniali, in forza delle quali accertata una sproporzione tra disponibilità di beni e redditi dichiarati, a certe condizioni, si può procedere al sequestro che diventerà confisca definitiva se colui che lo ha subito non riuscirà a dimostrare la provenienza lecita di quelle ricchezze.

Dunque: sequestro in assenza di condanna penale ed inversione dell’onere della prova per evitare che il sequestro diventi confisca. Una rivoluzione! Che infatti costò la vita al suo profeta: Pio La Torre. L’Unione Europea non possiede un’arma simile, ma soltanto la più tradizionale confisca penale, quella cioè che colpisce mezzi e profitti di un reato commesso e per il quale si è stati condannati in sede penale. Anche il regolamento europeo del 2018, entrato da poco in funzione, che riguarda la reciprocità dei provvedimenti di congelamento (sequestro) e confisca, pur importante, fa riferimento in sostanza alla confisca penale.

Questo iato tra normativa italiana e normativa europea è una buona misura della sfida che abbiamo davanti: ad oggi infatti ai mafiosi italiani conviene assai portare i soldi fuori dall’Italia e conviene ancor di più che l’Europa non cambi idea sulle misure di prevenzione patrimoniali. L’Italia oggi ha un compito in più: aiutare l’Unione Europea a non sbagliare strada.

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