Per squalificare la scuola, rendere ancora meno stimabile il lavoro dei docenti, spingere le famiglie degli allievi a cercare soluzioni individuali per ottenere un po’ di istruzione e magari di educazione, basta continuare così. In fondo basta poco: considerare i docenti come impiegati a mezzo servizio, un’attività che dà spazio e tempo al lavoro domestico, in prevalenza femminile, o al doppio lavoro dei professionisti. Dunque, non si lamentino troppo dei bassi stipendi (con il poco che lavorano e con tutte le vacanze che hanno): si consolino con la garanzia che nessuno verificherà la loro prestazione e preparazione, sia nei contenuti, sia nelle tecniche di insegnamento, nei rapporti con gli allievi, in quelle di verifica e valutazione dei risultati di ciascuno di loro. Basta che non esagerino e possono stare tranquilli.
Così perfino l’art. 33 della Costituzione, quello che garantisce la libertà di insegnamento, dopo un ventennio di scuola fascista che pretendeva docenti asserviti, diventa libertà di ogni docente di fare quello che vuole, in una specie di esaltazione individualistica della sua professione. Dimenticando che solo la collegialità e la pluralità garantiscono quella libertà che fa della scuola e dell’università utili luoghi di formazione delle nuove generazioni.
Naturalmente, l’interpretazione “estensiva” della libertà di insegnamento giova prevalentemente a chi l’invoca per non rispondere mai di quello che fa: del modo in cui organizza le lezioni, tratta gli allievi, sceglie e propone contenuti, dà i voti. Quando qualcuno ipotizza che i docenti debbano essere valutati, sono proprio quelli che “danno i voti” senza risponderne mai a pretendere che nessuna valutazione venga applicata al loro lavoro, alle loro competenze, all’impegno e alla collaborazione al funzionamento della scuola.
Sindacati e partiti hanno prevalentemente lavorato contro l’indizione di concorsi regolari, scanditi con certezza nel tempo (ogni due-tre anni come in Francia, ad esempio) a favore di interessi particolari, a “tutela” di questo o quel gruppo. Così il precariato si è ampliato a dismisura, facendo crescere rabbia e frustrazione, ma anche le attività degli uffici legali e dei centri servizi sindacali incaricati di costruire e gestire infiniti ricorsi. Ora, eliminata la Azzolina che aveva tenuto duro sulle richieste di sanatoria mascherata, arriva Brunetta a minare l’ultima flebile possibilità di controllare che le politiche di reclutamento privilegino non già il “merito”, ma almeno l’accertamento di alcuni requisiti che un docente dovrebbe avere e che non sempre sono garantiti: sapere leggere e scrivere correttamente in italiano; saper costruire un percorso didattico organizzandone i contenuti in lezioni, esercitazioni, verifiche e valutazioni; saper lavorare coi colleghi mostrando concretamente consapevolezza dell’importanza di obiettivi formativi condivisi; sapersi relazionare con colleghi e famiglie, proponendo soluzioni e suggerimenti che provino a risolvere i problemi dei ragazzi.
Probabilmente un vero concorso, con prove e valutazione dei titoli alla fine della procedura, non accerta tutto questo. Certamente mette i candidati sullo stesso piano – senza escludere i molto giovani con pochi titoli, come il governo sta pensando di fare – consentendo una verifica sommaria delle loro capacità e del loro atteggiamento complessivo verso l’attività professionale che si candidano a svolgere. Molti gruppi politici spingono per una sanatoria di tutti i precari ereditati dagli anni in cui di concorsi non se ne sono fatti, con una procedura in cui i titoli di servizio finiscono per determinare l’esito. I sindacati assecondano, forse timorosi di perdere il grande potere che hanno non già per il consenso di cui godono presso i lavoratori (adesione ultimo sciopero sotto il 4%), ma dall’intreccio perverso con le strutture ministeriali a cui sono funzionali.
Chi scrive è stato commissario in due concorsi per il reclutamento dei docenti, nel 2016 e nel 2018. Ha visto sfilare docenti, giovani adulti e vecchi, di ogni tipo e provenienza. Dovevano costruire una lezione intorno a un argomento che avevano estratto a sorte il giorno prima: contenuti, metodi, collegamenti, valutazione. Alcuni se la sono cavata con originalità, altri in modo più “scolastico”, altri ancora scopiazzando qua e là, proprio come se fossero loro gli studenti. Dal modo in cui costruivano la loro lezione-tipo si capiva abbastanza bene che insegnanti fossero e sarebbero stati, ecco il valore di quella prova. I giovani neolaureati pieni di nozioni e di competenze tecnologiche e pedagogiche, simpaticamente privi di esperienza pratica; i più vecchi un po’ frustrati da anni di attesa di concorsi mai banditi e timorosi di non riuscire a dimostrare passione, esperienza e capacità. Pochissimi hanno fallito la prova.
Nella scuola servono gli uni e gli altri, giovani e vecchi, uomini e donne. Ecco perché incentivare l’idea che nella scuola possa entrare chiunque senza controllo e criterio equivale a squalificare l’istituzione, a sputare sul lavoro dei tantissimi docenti che si dannano l’anima per costruire una proposta formativa utile al progresso sociale ed economico, a illudere famiglie e allievi che aspirano a un contesto utile a crescere con gli strumenti giusti. Poi è anche disprezzare chi si forma e si informa per dare una prestazione professionale che recuperi il prestigio troppo a lungo calpestato.
Cari onorevoli, fermate Brunetta e i suoi amici, lo dovete al paese che servite.