Quando nell’estate del 2020 la Regione Lazio fu la prima ad utilizzare i tamponi antigenici rapidi negli aeroporti per scovare i viaggiatori positivi al Covid, in tanti – dalla politica agli amministratori locali – ipotizzarono di fare lo stesso nelle scuole. “I test rapidi sono una vera avanguardia e saranno molto utili negli screening negli istituti”, diceva ad agosto il governatore del Veneto Luca Zaia. “Abbiamo chiesto di avere test rapidi e di fare in modo che ci sia il minor numero di giorni di dubbio sull’eventuale positività degli alunni”, insisteva il collega lombardo Attilio Fontana. “Si va in questa direzione”, la conferma del ministro Roberto Speranza alla Camera a fine settembre. Sembrava la soluzione perfetta: eseguire test di massa su prof e studenti per scongiurare una nuova ondata del virus e il ritorno alla didattica a distanza. Ma tra iniziale carenza dei kit, protocolli mai attuati, difficoltà burocratiche e contagi in risalita, il progetto non è mai decollato davvero. Di più. Il 23 dicembre scorso governo e regioni hanno firmato delle linee guida per l’attuazione di controlli a tappeto. Propositi che non si sono però mai tradotti in una metodologia concreta a livello nazionale.

I sindacati parlano di una “narrazione” della politica che non si è concretizzata, mentre se si prova a chiedere a qualche membro dell’ex Comitato tecnico scientifico coordinato da Agostino Miozzo che fine ha fatto l’idea, la risposta è sempre la stessa: se n’è tanto parlato, ma non è mai stato scritto nero su bianco che le Regioni li dovessero effettuare con regolarità. E c’è anche il giallo dei 5 milioni di test rapidi acquistati da Arcuri in autunno: fonti spiegano a Ilfattoquotidiano.it che sono stati inviati sul territorio, dove però per mancanza di organizzazione sono stati impiegati anche in ambiti extrascolastici. Alla fine ogni Regione ha fatto da sé, con differenze che variano da provincia a provincia. C’è chi, come l’Alto Adige, ha provato a imporre i test obbligatori agli studenti incappando nelle ire di Speranza, chi ha messo in piedi un sistema di monitoraggio a campione, chi fa i test solo ai contatti stretti dei ragazzi positivi. Con la conseguenza che la principale arma contro la chiusura delle scuole è stata inevitabilmente depotenziata.

Quasi un anno di annunci – Le prime avvisaglie dell’intenzione dell’esecutivo di usare i test rapidi a tappeto nelle classi risale già a fine estate 2020. Il 4 settembre il Corriere della Sera titola così: “Inizio scuola, dopo il primo caso di un positivo al Covid al via i test rapidi per tutti: il piano del governo”. Tra mezzi annunci e assist al progetto si arriva a fine mese, quando il ministro Speranza, rispondendo a un question time alla Camera, dopo il successo dei test antigenici negli aeroporti (100 mila al giorno) ufficializza che si stanno prendendo in considerazione anche “rispetto alla grande questione della riapertura delle scuole. Tra i test più promettenti – spiega il ministro ai deputati – c’è quello salivare, meno invasivo e più indicato per essere usato nelle scuole”. “Sono un pezzo della nostra strategia per l’autunno”, ripete il ministro della Salute nelle riunioni riservate dell’esecutivo. Un concetto confermato anche a inizio ottobre in occasione della visita allo stabilimento “Sanofi” di Anagni: “In alcune regioni i test rapidi nelle scuole sono già partiti e l’auspicio è che nel giro di poco si possa partire dappertutto”. Per una volta sono tutti d’accordo, compresi i governatori di centrodestra e la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, che chiarisce: “A scuola ci sono regole, distanziamento, gel mascherine. Nella giornata di uno studente è il momento più sicuro. Ho chiesto i test rapidi per le scuole, non possiamo bloccare una classe per un raffreddore”.

Dall’ok del Cts al bando di Arcuri, perché la macchina si è fermata – L’utilità dei tamponi antigenici come strumento di prevenzione nell’ambito scolastico viene confermata il 29 settembre con una circolare del ministero della Salute. Nella stessa giornata sul sito della presidenza del Consiglio dei Ministri è pubblicata la richiesta pubblica di offerta in procedura semplificata e di massima urgenza per la fornitura di 5 milioni di test rapidi: le offerte devono essere presentate entro l’8 ottobre 2020. Si tratta però di settimane cruciali dal punto di vista epidemiologico: i contagi salgono a dismisura e a novembre le scuole, soprattutto le secondarie, sono costrette a chiudere. Restano aperte solo le primarie e quelle dell’infanzia della maggior parte delle Regioni. Così dei 5 milioni di test rapidi nelle scuole ci si dimentica presto. A distanza di sei mesi Ilfatto.it ha provato a capire com’è finita quella richiesta pubblica di offerta. A viale Trastevere e tra i membri del precedente Cts non hanno risposte. Gli ex collaboratori del commissario Domenico Arcuri rimandano tutto nel campo del generale Paolo Francesco Figliuolo, nonostante si tratti di un’iniziativa risalente al periodo precedente alla sua nomina. Una fonte dell’ex governo Conte conferma che i tamponi sono stati acquistati – come si vede anche sulla documentazione pubblicata online sul sito della Presidenza – e inviati alle Regioni. Che però, a causa delle difficoltà nel riuscire a testare oltre 8 milioni di studenti, li hanno impiegati anche in altri settori.

Quell’accordo governo-Regioni caduto nel vuoto – Superata la seconda ondata del Covid, si torna a parlare di tamponi in vista della ripresa delle lezioni a gennaio. Ma è di nuovo un buco nell’acqua. Nelle Linee guida “per garantire il corretto svolgimento dell’anno scolastico”, firmate il 23 dicembre 2020 dal presidente della Conferenza Unificata Stato-Regioni Francesco Boccia, si legge: “Le Regioni e le Province autonome, al fine di assicurare lo svolgimento dell’anno scolastico in sicurezza anche in collaborazione con il ministero della Salute elaborano un Piano operativo, finalizzato a garantire l’applicazione rapida e tempestiva dei protocolli sanitari relativi alle modalità di screening della popolazione studentesca”. Quel Piano, però, come confermano fonti della Conferenza delle Regioni al Fatto.it, non è mai stato elaborato. A ostacolare l’operazione va detto che ci sono diverse questioni non affrontate a livello centrale. La prima: la mancanza di risorse umane per andare nelle scuole a fare i test. La seconda: nessuno può obbligare le famiglie a farli, come ha ripetuto di recente una nota del capo dipartimento del ministero dell’Istruzione, Stefano Versari. La terza: esiste l’autonomia scolastica, perciò è il dirigente scolastico a decidere. Risultato? Lo screening per tutta la popolazione scolastica non viene coordinato a livello nazionale e ogni Regione fa di testa sua.

Ogni Regione fa da sé – In Emilia Romagna, ad esempio, la giunta a guida Bonaccini, sentito l’Ufficio scolastico regionale e dopo un confronto con i sindacati, ha messo a punto un piano con tamponi rapidi e gratuiti in farmacia per studenti, famiglie e personale scolastico, ma anche test a un campione di volontari per prevenire focolai. In Piemonte dall’11 gennaio, con il supporto del referente Covid di ogni scuola, si organizza uno screening modulare sui 75mila studenti di seconda e terza media, che sono sottoposti su base volontaria una volta al mese (ogni settimana viene testato un quarto di ogni classe) a tamponi molecolari e antigenici utilizzando gli hotspot presenti in tutta la Regione. Nel Lazio è partita “Scuola Sicura”: tutto il personale scolastico può fare i tamponi veloci nei drive-in prenotandosi sul sito internet. Un piano che si rivolge anche ai ragazzi tra i 14 e i 18 anni, sempre su base volontaria. Sono solo alcuni casi, con forti differenze tra Nord e Sud e nessun progetto di monitoraggio costante.

Ultimo atto: l’incontro tra Bianchi e i sindacati – Ora che milioni di studenti sono tornati a scuola dopo le vacanze di Pasqua – nonostante le incertezze epidemiologiche – l’ipotesi di fare test di massa è tornata di nuovo in auge. La proposta sembra sia arrivata sul tavolo del generale Figliuolo, ma resta il problema della carenza di personale da dedicare all’operazione. Antonello Giannelli, il presidente dell’associazione nazionale dei dirigenti scolastici, ribadisce al Fatto.it l’importanza e la necessità di uno screening di massa, ammettendo però che “manca un piano”. Se n’è parlato anche alla riunione in videoconferenza tra i vertici del ministero dell’Istruzione, un rappresentante della struttura commissariale per l’emergenza e le organizzazioni sindacali della scuola. “Da parte dei sindacati – scrivono in un comunicato unitario Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola, Snals e Gilda – sono state ribadite le richieste di potenziare, da subito, le attività di tracciamento, con attenzione prioritaria alla scuola attraverso test periodici per tutta la popolazione scolastica, di emanare linee guida che assicurino omogeneità da parte delle Asl nell’adottare le necessarie misure di profilassi, di aggiornare il protocollo per le attività scolastiche in sicurezza ridefinendone criteri e misure alla luce delle esigenze poste dalla diffusione delle nuove varianti”. Tutto è rinviato a venerdì, quando ci sarà un nuovo confronto. E mancheranno meno di due mesi alla fine dell’anno scolastico.

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