Amplificare un problema sociale può rappresentare una strategia vincente per fare luce sulla questione e per mobilitare forze umane ed economiche volte a risolverla. Ma quanto può risultare eticamente corretto e socialmente impattante? Sulla questione rom la tentazione è sempre stata forte, a partire dai numeri, perché solo facendoli lievitare si possono giustificare interventi proporzionali al problema.
In Italia abbiamo a livello nazionale una Strategia d’Inclusione, un Punto di contatto nazionale, Tavoli, Piattaforme, fondi dedicati. A livello locale in diverse città esistono Uffici Speciali, dirigenti, funzionari, assistenti sociali, bandi capitolati. E poi esperti, organizzazioni, istituti di ricerca, associazioni etniche e non. Un apparato enorme in proporzione a un problema che deve essere anch’esso tale per giustificare questa mobilitazione. Anche a costo di far crescere i numeri.
Un esempio in questo senso lo troviamo nell’annoso problema legato ai cosiddetti “apolidi di fatto” dell’ex Jugoslavia, cittadini rom scappati dalla guerra balcanica negli anni Novanta e, dopo tre generazioni, ancora privi di qualsiasi documento. Fino allo scorso anno autorevoli organismi erano arrivati a fissare tra 15.000[1] e le 25.000[2] il numero dei giovani rom definiti a rischio apolidia. Queste stime, privi di qualsiasi studio pregresso, avevano fatto emergere negli anni l’urgenza di una molteplicità di interventi: la presentazione di disegni di legge concernenti la procedura per il riconoscimento dello status di apolidia; l’adozione di progetti finanziati da organismi privati; la costituzione in seno all’Ufficio Nazionale Anti Discriminazioni Razziali di un gruppo di lavoro sullo status giuridico delle comunità rom; una lunga serie di rapporti e raccomandazioni da parte del Commissario d’Europa.
È stato solo alla fine del 2020, al termine di uno studio quantitativo che ha preso come campione più di un terzo delle persone dell’ex Jugoslavia presenti negli insediamenti italiani, che si è potuto sostenere, dati alla mano, come sia “ragionevole sostenere che le persone ‘a forte rischio apolidia’ presenti negli insediamenti rom italiani siano circa 860. Di essi circa 470 potrebbero essere rappresentati da minori”[3]. Un numero estremamente esiguo, 50 volte minore di quello sino ad ora considerato! Non pochi hanno storto il naso di fronte agli incontrovertibili numeri che finivano per cambiare scenari e prospettive di intervento.
Anche sul numero dei residenti all’interno dei “campi rom” si prova spesso a giocare al rialzo. In assenza di fonti documentate l’ente governativo preposto all’applicazione della Strategia d’Inclusione dei Rom parlava nel 2012 di almeno 40mila abitanti nei campi. Secondo l’ultimo studio di Associazione 21 luglio, mappando uno per uno, insediamento per insediamento, la cifra non supera in realtà le 18mila unità. Meno della metà.
Amplificare i numeri delle persone identificate come rom può sicuramente nell’immediato aiutare ad accendere fari sul problema, a creare e mantenere enti ed agenzie governative, a drenare i futuri fondi del Recovery in favore del privato sociale. Ma non va dimenticato – e l’evidenza degli ultimi anni lo dimostra – che nel lungo periodo va a discapito di chi il problema lo vive sulla sua carne perché rafforza lo stigma, alimenta fobie collettive, giustifica “stati di emergenza” e politiche speciali, promuove azioni discriminatorie.
Alla fine gli abitanti dei campi rom rappresentano solo lo 0,03% della popolazione totale, senza avere nulla di diverso dai dimenticati baraccati messinesi che da più di un secolo vivono negli accampamenti del post terremoto del 1918. Per entrambi lo Stato è costituzionalmente chiamato a garantire un alloggio adeguato come risposta a un bisogno primario. È questo che manca, non certo un elefantiaco sistema che negli anni abbiamo tirato su ingigantendo il problema fino a farlo diventare un mostro dai mille tentacoli. Con strutture consolidate che garantiscono sì lavoro e carriere, ma senza risolvere alla radice il problema di chi nella baracca continua a nascere, a vedere i figli crescere, a morire. Rom o non rom.
[1] Cfr. Commissione Straordinaria per la tutela e la promozione dei Diritti Umani del Senato, Rapporto conclusivo dell’indagine sulla condizione di Rom, Sinti e Caminanti in Italia, Roma, 2011.
[2] Istituto per gli Studi sulla Pubblica Opinione, Italiani, rom e sinti a confronto, una ricerca quali-quantitativa, Roma, 2008.
[3] Associazione 21 luglio, Fantasmi urbani, Roma, 2020.