Parte dagli Stati Uniti la protesta degli autori che mette alla berlina interpreti e cantautori, colpevoli a loro dire di appropriarsi indebitamente di meriti, crediti e royalties non propriamente loro spettanti, svilendo e umiliando così il lavoro e la professionalità dei reali artefici dei piccoli e grandi successi del mondo della canzone.

“Basta prendervi merito e soldi per hit che non avete scritto”, tanto, rivolgendosi alle star della popular music, affermano gli autori del gruppo The Pact, facendo leva su alcune argomentazioni certamente inoppugnabili: “Gli artisti continueranno a raccogliere entrate da tour, merchandising, partnership con i marchi e molti altri flussi di entrate, mentre i cantautori hanno solo le loro entrate editoriali come mezzo di guadagno”, la qual cosa è certamente vera, specie considerando che “dietro la maggior parte delle canzoni c’è una storia di collaborazione – aggiungono i membri di The Pact – Al momento del rilascio, una canzone è stata toccata non solo dall’artista, ma da cantautori, produttori, mixer, ingegneri, etichette discografiche, editori, manager e altro ancora”.

Ecco perché la richiesta che gli autori uniti in questa battaglia rivolgono a cantanti e cantautori sembra ragionevole: non pretendere royalties da quelle fasi della produzione nelle quali non hanno mai messo mano, e cioè, il più delle volte, la composizione e l’editing. Il che significa, a ben vedere, tentare di ridurre drasticamente il peso contrattuale che interpreti e cantautori hanno nel mondo del music business, obiettivo ben difficile da raggiungere fin quando l’intero sistema dello show business musicale continuerà a puntare i suoi riflettori sui soli performer senza dare adeguato spazio, adeguata visibilità ad autori di ogni genere.

Il problema è vecchio come il cucco, perché andando a ritroso troviamo un’infinita sequela di esempi del genere, e cioè di performer di vario tipo che hanno occupato spazi autoriali non loro propriamente spettanti: è quello che affermavamo tre anni or sono nel volume La Bottega dei Falsautori (Edizioni Arcana, 2018), con buona pace di una sparuta minoranza di lettori che, fraintendendo completamente il senso di quel libro, ha creduto si trattasse di un atto di malcelata invidia verso artisti di gran successo.

Intento di quel volume era invece quello, positivamente riconosciuto da più parti, di condurre un’analisi musicologica, ma dal taglio divulgativo, volta a tracciare una netta linea di confine tra figure generalmente, ma erroneamente, affiancate dal mondo del giornalismo generalista sebbene, a ben vedere, nettamente distinte e spesso mille miglia distanti fra loro.

Gli esempi portati all’interno del volume erano molti e circostanziati, sia in negativo (puri performer che hanno fatto di tutto per passare alla storia in qualità di grandi autori pur non essendolo affatto) che in positivo (grandi nomi del panorama della canzone che hanno sempre dato il giusto spazio autoriale ai propri collaboratori o sono stati, senza che nessuno lo sottolineasse abbastanza, autori tout court della loro stessa produzione).

Oggi esplode finalmente la protesta degli autori, la qual cosa, oltre a essere un bel segnale di vita dal mondo della produzione musicale popular, viene a confermare tutta la bontà di un libro che, caso isolato nell’intero panorama editoriale, ha anticipato di qualche anno un movimento dai promettenti sviluppi futuri. Sviluppi, a ben vedere, già anticipati dalla storia, una storia che affonda le sue radici nella secolare tradizione melodrammatica e che ineffabilmente si ripete: anche nel mondo dell’opera lo strapotere dei cantanti fu tale da impedire ai compositori di ricevere la meritata visibilità e il meritato guadagno, nettamente inferiore a quello degli interpreti fino ai primi del 1800, per interi secoli.

La storia ciclicamente si ripete, e anche il mondo della popular music sta oggi, nel periodo di maggior crisi finanziaria di sempre e anche a causa di questo, entrando finalmente in un periodo di maggiore maturità produttiva: che si dia a Cesare quel che è di Cesare, o la storia della popular music continuerà a vivere di falsi miti consegnando al tempo stesso all’oblio molte delle sue più importanti figure.

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