“Finisce l’era dei Castro”. È con questo titolo che, ormai da qualche giorno, i media non cubani vanno, quasi all’unisono, annunciando l’VIII Congresso del Partido Comunista de Cuba, “magno evento” (così lo definiscono gli organi di stampa cubani) che s’aprirà domani all’Avana, per chiudersi – non casualmente – il prossimo 19 aprile, giorno del 60esimo anniversario della vittoria di Playa Girón.

E piuttosto ovvie appaiono le ragioni di questa pressoché unanime presentazione. Dovesse infatti – cosa che viene data per scontata – mantenere la promessa fatta chiudendo il VII Congresso, Raúl Castro, fratello di Fidel ed attuale “primer segretario del Comité Central”, si prepara, raggiunta la venerabile soglia degli anni 89, a presentare la propria rinuncia ad ogni carica. Il che significa che, per la prima volta dal giorno dell’ingresso dei “barbudos” all’Avana (8 gennaio 1959), Cuba si ritroverà, almeno nominalmente “decastrizzata”. Ovvero: senza la possibilità di reperire un qualsivoglia dirigente il cui cognome sia Castro insediato ai vertici dello Stato e del Partito (due entità che, nella Cuba castrista, sono da sempre di fatto sinonimi).

E tuttavia, più che finita, “l’era dei Castro” – se mai c’è davvero stata un’era dei Castro – è in realtà “ri-finita”. O meglio: sta, con questo ottavo Congresso, “finendo di finire”, chiudendo un processo apertosi ben tre lustri orsono e, per molti aspetti, intrinseco alla natura d’una rivoluzione che tale ha cessato d’essere tale, ormai, da molti decenni. L’era dei Castro – o quella che così viene impropriamente chiamata – è per la prima volta finita, o ha cominciato a finire, quando, nell’agosto del 2006, Carlos Valenciaga il “jefe de despacho” del “Comandante en jefe” – ossia l’oscuro portavoce d’una voce considerata, fino a quell’istante, assolutamente non surrogabile o delegabile – aveva rivelato in un messaggio televisivo come Fidel Castro, reduce da un viaggio in Argentina, fosse stato urgentemente sottoposto ad un delicato intervento allo stomaco. Tanto urgente e delicato, in effetti, da impedirgli d’annunciare in persona alla Nazione quella che si preannunciava come una sua non breve assenza.

Quel che ha fatto seguito a quell’annuncio è, ormai, parte della Storia. La “non breve” assenza è, di fatto, diventata una costante. Fidel non si è più ripreso. Meno di due anni dopo, nel 2008, ha rinunciato, senza possibilità di marce indietro, alle cariche di “presidente del Consejo de Estado y de Ministros” – di fatto alla guida del governo – fino ad allora solo temporaneamente lasciate, causa malattia, nelle mani del fratello. E tre anni più tardi, in occasione del VI Congresso, ha definitivamente affidato a Raúl anche il vero bastone del comando: la carica, per l’appunto, di “Primer secretario” di quel Partito Comunista che, in termini inequivocabilmente totalitari, la Costituzione definisce “forza dirigente superiore della società e dello Stato”. Del Fidel dei suoi ultimi dieci anni – quelli che separano la sua malattia dalla sua morte, nel novembre del 2016 – non restano oggi che le sue “riflessioni”, spesso divaganti (e quasi sempre irrilevanti) dissertazioni tra storia, politica e scienza. E tuttavia proprio a quell’inizio della fine, occorre ritornare per capire il vero senso del processo di transizione che allora si avviò. E che questo VIII Congresso si appresta, in difficilissime condizioni, sullo sfondo della pandemia, a continuare.

Il 14 giugno del 2006, pochi mesi prima dell’annuncio del ricovero di Fidel (ma quando già si poneva il problema del suo precario stato di salute), era stato proprio Raúl a spiegarne la natura. Parlando a Las Lajas, in occasione del 43esimo anniversario della fondazione dell’Ejercito Occidental , Raúl aveva solennemente affermato: “Il comandante en jefe della rivoluzione cubana è uno solo. E solo il Partito Comunista, come istituzione che unisce l’avanguardia rivoluzionaria e come garanzia dell’unità dei cubani in tutti i tempi, può essere considerato degno erede della fiducia che il popolo ha riposto nel suo líder”.

Nulla più che uno scontato ed affettatamente umile omaggio al grande ed amato leader? No. Quello che Raúl annunciava era, piuttosto, al di là d’ogni retorica, il vero significato di una “continuità” che ancora dura. Semplicemente: Fidel, il comandante en jefe e líder maximo, non poteva avere eredi. Ed il suo successore non poteva essere che lui stesso, il suo vero lascito “immortale”. Vale a dire: la “sua” rivoluzione ed il partito – una sorta di metaforico Principe – che di quella rivoluzione è il vero ed unico garante.

Chiunque conosca un po’ di storia della rivoluzione cubana sa come di questa continuità Raúl – a torto sminuito come semplice “erede” del sovrano – sempre sia stato, in realtà, il primo e più pratico artefice. Perché proprio a lui – molto più che a Fidel – si deve, fin dai tempi della Sierra Maestra, la costruzione di quelli che, oltre il Fidel “mortale”, sono stati e restano i veri pilastri della rivoluzione: le forze armate e, per l’appunto, il Partito Comunista. Due pilastri che, ovviamente, sono garanzie, non di “immortalità”, come vuole la retorica di regime, ma di sopravvivenza. Sopravvivenza agli attacchi ed agli assedi. Sopravvivenza al crollo del sistema politico ed economico internazionale nel quale era cresciuta. Sopravvivenza alla fine della propria originalmente nobile ragion d’essere. Sopravvivenza alla negazione di libertà le cui ragioni morali continuano a riemergere perché sono, esse sì, più forti di una rivoluzione che, pure, è stata – se valutata con gli occhi della Storia – una forza di libertà.

Tornerò sull’argomento nel corso del Congresso. Ma è proprio da qui che occorre partire per capire il vero senso delle cronache – cronache, anch’esse di sopravvivenza – del “magno evento” che si apre domani. La fine della fine dell’era dei Castro è arrivata. Quel che seguirà è un enigma che, presumibilmente, l’VIII Congresso non farà che riproporre.

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