Il comune di Castelfranco Emilia ha poco più di trentamila abitanti e nelle ultime settimane ha scelto di compiere un gesto simbolico per includerlə tuttə nelle politiche cittadine. Come? Utilizzando il simbolo dello schwa (ə) come desinenza sui suoi canali social, invece di declinare al maschile plurale i termini che raggruppano persone di generi diversi. Quindi, ad esempio, si dirà: “discutiamo dei diritti di tuttə”. L’uso dello schwa può sostituire altri stratagemmi recenti della forma scritta, come la classica barra che separa maschile e femminile (tutti/e) o l’ormai celeberrimo asterisco (tutt*) – che però foneticamente è muto – nato per ricercare un tipo di inclusione che superi il binarismo di genere e si rivolga davvero a tutte le persone.

Prima che infiammino le polemiche, lo metto per iscritto: lo schwa non nasce da un complotto della teoria gender, come qualcunə si diverte a propagandare, spero ironicamente. Esiste da sempre ed è un simbolo riconosciuto dell’Alfabeto Fonetico Internazionale, poiché è una vocale presente in svariate lingue, soprattutto utile alla trascrizione fonetica delle parole e della loro pronuncia, comprese quelle che usiamo quotidianamente con l’inglese. Un esempio per capire “che suono fa” è proprio il termine inglese “but”, cioè “ma”; spesso noi italianə pronunciamo “bat”, ma basta farci aiutare dalla funzione audio di google translate per capire che la vocale centrale è invece più neutra, né una a, né una u. Ancora più semplice, per chi come me ha familiarità con le cadenze e i dialetti del sud: lo schwa suona esattamente come il finale troncato di parole come bell’, Napul’ o puntual’.

Tendenzialmente, però, al momento chi usa lo schwa in italiano lo fa solo nella forma scritta, soprattutto sui social. A che pro? Innanzitutto perché la regola linguistica si basa su un’eredità maschilista. Se ci sono cento persone e novantanove sono donne e una è uomo, la regola impone di parlare al maschile. A rigor di logica il maschile sovraesteso non è sensato, vista la maggioranza schiacciante; ahimé, però, nel percorso di formazione della lingua la presenza di un uomo è sempre stata più importante e valorizzante. Ricordiamoci che anche i mestieri declinati al femminile ci risultano sgradevoli proprio a causa del sessismo a cui la storia ci ha abituati: o le donne quel lavoro non potevano farlo, oppure se lo facevano era meglio usare il maschile poiché lo si considerava a più prestigioso e degno. In secondo luogo, lo schwa permette di includere in qualunque discorso anche le persone non-binarie o genderfluid, che spesso preferiscono non utilizzare né il maschile né il femminile.

Qualcunə dirà che qui si sta massacrando la lingua italiana, ma non è così. Il funzionamento di una lingua – al di là dell’assetto grammaticale – ha dei corsi e ricorsi: se una parola è molto usata e si diffonde, col passare del tempo diventa un neologismo e può entrare nel dizionario. Di recente è stato aggiunto il verbo “buare”, cioè fare “buuu” alla performance di qualcuno, o ancora “salottismo” per designare le abitudini della vita mondana. Lo schwa non è una parola a sé, è vero, ma concorderete che se in certi ambienti – dove le parole vengono reclamate per ottenere maggiore inclusione e parità – si sollevano dubbi e si cercano soluzioni, è quantomeno doveroso stare ad ascoltare con mente aperta, sperimentare.

Questo hanno fatto le istituzioni di Castelfranco Emilia, definendolo proprio “esercizio di cura”, che splendida definizione. La cosa migliore è che non costa assolutamente nulla (giusto lo sforzo mentale di voler fare qualcosa di utile), ma ha due pro: uno simbolico, anzi politico oserei dire, che trasmette una certa visione della società e l’altro più empatico, umano, attento alle esigenze della singola persona.

La rivoluzione dello schwa, diffusa in Italia grazie a Italiano Inclusivo e poi alla linguista Vera Gheno, si coglie anche dalla visibilità che gli ha dato Google. Infatti, nell’ultimo aggiornamento delle tastiere Google per smartphone, tenendo premuto il tasto “e” tra le varie opzioni di scrittura compare proprio lo schwa. Non è più un fenomeno così di nicchia, dunque. Certo, la complessità di una lingua flessiva come l’italiano porrà dubbi di ogni sorta: articoli, eccezioni, aggettivi e plurali irregolari; e altri ancora stanno nascendo con l’esigenza di adeguare lo schwa agli screen reader, ovvero i software di lettura dello schermo. Ma se questo escamotage fonetico dovesse prendere piede si troverà una soluzione a ciascun ostacolo. È segno di buona salute e di vivacità il fatto che una lingua accolga le istanze sociali. Credetemi, se l’italiano non è morto con “triggerare” o “blastare”, di certo non sarà lo schwa a dargli il colpo di grazia.

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Il Comune di Castelfranco Emilia inizierà a usare lo schwa (ə) nelle comunicazioni istituzionali: “Vogliamo essere più inclusivi”

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