Da sempre contestata per il suo approccio soft alla crisi sanitaria, senza lockdown né restrizioni severe, Stoccolma è da un anno sotto i riflettori. Dal tasso di mortalità al confronto coi vicini nordici o coi Paesi dell'Europa continentale: i dati che abbiamo a oggi per valutare le scelte svedesi
Ha detto no al lockdown e alle restrizioni severe per evitare la diffusione del contagio. Ma nel corso dell’anno di crisi sanitaria causa Covid-19, non poche cose sono cambiate in Svezia rispetto all’approccio iniziale. Da gennaio è stato consigliato l’uso della mascherina sui mezzi pubblici – di cui era sempre stata in messa in discussione l’efficacia – e dal 10 gennaio fino a settembre potranno essere disposte chiusure, dagli esercizi commerciali ai trasporti. Misure finora mai adottate, ma ora eventualmente possibili. Il governo ha più volte parlato di “situazione grave” e lo stesso re di Svezia, a fine 2020, ha ammesso che il Paese ha fallito, avendo avuto così tanti morti causa Covid. Ma come stanno le cose a un anno dall’inizio?
La situazione attuale – A oggi i numeri mostrano che la Svezia, che ha 10 milioni di abitanti di cui il 20% vive nella capitale, ha registrato dati più gravi rispetto ai Paesi vicini. Sono 885mila i casi e oltre 13mila i morti finora conteggiati, e anche sull’attuale andamento della curva i numeri non confortano. Il Guardian, in un articolo del 13 aprile, spiega infatti che “la Svezia ha registrato il più alto numero di nuove infezioni da coronavirus pro capite in Europa nell’ultima settimana”, con “una media di 625 nuove infezioni per milione di persone” negli ultimi sette giorni. Un numero che è inferiore a quelli di Polonia (521 che in queste settimane sta affrontando un’ondata pandemica molto violenta), Francia (491), Paesi Bassi (430), Italia (237) e Germania (208). Ma il confronto diventa interessante se parametrato soprattutto ai Paesi Nordici: 65, 111 e 132 per milione sono infatti i numeri di Finlandia, Danimarca e Norvegia. Molto lontani dal 625 svedese.
Ma se infezioni e occupazione delle terapie intensive sono aumentati, non è stato lo stesso per le vittime: a giocare una parte importante la vaccinazione degli anziani delle case di cura, che sono stati circa il 30% dei morti totali per Covid nel Paese. Attualmente le dosi somministrate nel Paese sono oltre 2 milioni, col 6,2% della popolazione vaccinata (l’Italia è al 6,9%) ma è già stato deciso che non sarà utilizzato il siero di Johnson&Johnson dopo le segnalazioni di casi di trombosi simili a quelli rilevati per AstraZeneca, che viene inoculato solo agli over 65.
Nel complesso poi, scrive ancora il quotidiano inglese, la Svezia ha avuto “un tasso di mortalità per milione di quasi 1.350, molte volte superiore a quello dei suoi vicini nordici, ma inferiore rispetto a diversi paesi europei che hanno optato per i blocchi“. Significa che le restrizioni non fossero necessarie? No, ma questo dato indica alcuni elementi interessanti rispetto al contesto specifico.
Nel 2020 la Svezia ha avuto una mortalità superiore del 7,7% “rispetto alla media dei quattro anni precedenti, una cifra inferiore rispetto a 21 dei 30 paesi intervistati” da Eurostat. In Spagna e il Belgio, che hanno implementato restrizioni, lockdown e chiusure, questo dato è al 18,1% e 16,2%. C’è però da sottolineare che Stoccolma ha fatto ben peggio rispetto ai suoi vicini nordici: la Danimarca registra infatti solo l’1,5% di mortalità in eccesso e la Finlandia l’1,0%. Sorprendente la Norvegia, che “non ha registrato alcun eccesso di mortalità nel 2020”.
Da marzo 2020 a oggi – In un primo momento la Svezia aveva deciso di agire come il Regno Unito che, al contrario di quanto poi deciso da Stoccolma, ha fatto un importante inversione di marcia con lockdown plurimi e severi e una campagna di vaccinazione che è tra le più efficienti al mondo dopo Israele e Stati Uniti. La Svezia, invece – che non ha neanche raggiunto l’immunità di gregge, obiettivo declamato anche da Londra fino a quando Boris Johnson non è intervenuto con una stretta radicale la scorsa primavera – ha continuato sulla strada dei consigli e non delle restrizioni, arrivando sì a limitare il numero di persone per gli assembramenti, ma mai a chiudere le attività essenziali. Un modello che in Minnesota, scrive il New Yorker, alcuni gruppi di estrema destra hanno preso a modello e durante le proteste anti restrizioni sventolavano il cartello “Be Like Sweden”.
Il magazine americano riporta poi le considerazioni di Patrick Heuveline, docente di sociologia presso l’Università di Los Angeles che studia i tassi di mortalità pandemica. Spiega che rispetto a Italia, Spagna, Regno Unito e Belgio “in Svezia non è andata poi così male”, ma sottolinea che il confronto non va fatto con questi Paesi per Stoccolma, ma con i vicini nordici, sia per le abitudini dei suoi cittadini che per il contesto socio-culturale e la collocazione geografica.
Le prime infezioni in Svezia, infatti, “sono arrivate anche più tardi che in altre parti d’Europa” un elemento che ha permesso al governo di Stoccolma di avere “più tempo per avvertire i suoi cittadini della gravità del virus”. Per l’epidemiologo di Stato Anders Tegnell – l’uomo dietro tutte le decisioni prese durante la pandemia che nel tempo ha rivisto la sua posizione sulle mascherine ed è stato pesantemente criticato anche da medici e operatori sanitari per la mala gestione della crisi sanitaria – è troppo presto però per dare un giudizio sulle scelte svedesi ai tempi del coronavirus. “La pandemia non è finita. Si potrà giudicare più avanti, quando tutto sarà passato”.