A sei mesi dalla sentenza sono arrivate le motivazioni del verdetto su Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, ormai radiata dalla magistratura, condannata a 8 anni e mezzo per gli ipotizzati affari illeciti nella gestione dei beni confiscati alle cosche. Una gestione che l’accusa aveva definito “un sistema perverso e tentacolare”. Secondo i giudici lìex giudice avrebbe messo in atto una “grave distorsione – per tempi, modalità e protrazione delle condotte – delle funzioni giudiziarie da avere arrecato, oltre che danni patrimoniali ingentissimi all’erario e alle amministrazioni giudiziarie, anche un discredito gravissimo all’amministrazione della giustizia”.
La competenza dell’amministratore giudiziario Gaetano Cappellano Seminara – condannato a 7 anni e mezzo – non viene messa in discussione ma, secondo la ricostruzione del tribunale, passava in secondo piano di fronte al patto corruttivo. Cappellano, scrivono i giudici, otteneva gli incarichi perché così avrebbe ricambiato il favore alla Saguto che – sottolineano i giudici – aveva problemi finanziari : “Le risultanze delle indagini preliminari hanno dimostrato – si legge nelle motivazioni della sentenza – come la principale fonte di reddito di Lorenzo Caramma (ingegnere e marito di Saguto) negli anni dal 2006 e sei al 2015 siano proprio i compensi corrisposti da Cappellano Seminara quale libero professionista e quale amministratore giudiziario”. In un altro passaggio si legge: “Seminara non riceveva lucrosi incarichi dalla Saguto per le sue indiscusse capacità professionali quanto invece perché lo stesso poteva ricambiare attraverso il conferimento di incarichi al marito e attraverso le dazioni di utilità indebite”.
La sentenza ha riguardato anche il marito di Saguto, Lorenzo Caramma. condannato a 6 anni e 10 mesi. Nelle motivazioni i giudici di Caltanissetta elencano anche le conversazioni telefoniche ed ambientali sulle “difficoltà economiche vissute dalla famiglia Saguto-Caramma e alle richieste di denaro, più o meno esplicite, formulate da Saguto all’indirizzo di Cappellano Seminara, “Non può revocarsi in dubbio, quindi – dicono i giudici – che nelle conversazioni l’allusione al fatto che dovesse arrivare qualcosa conteneva il riferimento al denaro”. E fanno riferimento a un altro dialogo, stavolta con Cappellano, l’8 giugno 2015, nel quale la Saguto “aveva esplicitamente richiesto a Cappellano di capitalizzare”. Secondo i giudici i soldi, nelle conversazioni, erano indicati come “documenti”.
Il Tribunale non aveva riconosciuto l’associazione a delinquere e nelle motivazioni scrivono le ragioni. Quello messo in piedi dall’allora giudice era un “sistema”, ma non un’associazione a delinquere perché “i reati sono stati commessi ciascuno in adesione ad un patto corruttivo, di scambio di reciproche utilità tra i concorrenti senza che mai si possa individuare l’appartenenza a un gruppo stabile e duraturo”. Sull’associazione a delinquere, dunque il tribunale non ha accolto la ricostruzione della Procura, rappresentata in aula dai pm Claudia Pasciuti e Maurizio Bonaccorso. “Ciò che manca nel caso di specie – si legge nelle motivazioni – è l’accertamento dell’esistenza di una struttura organizzativa idonea a realizzare gli obiettivi criminosi presi di mira. Nel caso di specie i pretesi reati fine o scopo dell’associazione hanno la caratteristica di essere commessi ciascuno di essi in adesione a un patto corruttivo di scambio di reciproche utilità tra i concorrenti, senza che mai si possa individuare l’appartenenza ad un gruppo stabile e strutturato”.