Pur lavorando nell’azienda leader del settore, in continua espansione e dai fatturati in crescita, tirano la cinghia da otto anni e con tutta probabilità dovranno farlo ancora. Loro sono “gli omini disarmati che presidiano le reception e i cantieri”, come li chiama il proprietario e amministratore delegato del Gruppo Sicuritalia, Lorenzo Manca, alla guida dell’azienda di famiglia dal ’94. Ma se gli affari del gruppo vanno bene, come ha recentemente dichiarato lo stesso ad, nella cooperativa che raccoglie gli oltre quattromila addetti della vigilanza non armata i conti ancora non tornano. E per l’ennesima volta si invitano i soci lavoratori a derogare al già misero contratto collettivo di categoria – ai primi livelli prevede meno di 800 euro lordi al mese – perché l’immediato adeguamento a quel contratto, scrive l’azienda nella convocazione dell’assemblea del prossimo 20 aprile, “comprometterebbe seriamente la continuazione dell’attività”. I sindacati denunciano incongruenze nelle informazioni dovute ai soci lavoratori e attaccano: “Il gruppo in salute e la cooperativa in crisi? Il giochino va avanti da anni e con le deroghe al contratto Sicuritalia ha ridotto il costo del lavoro e fatto man bassa di appalti pubblici e privati”, sostiene Stefano Franzoni della Uiltucs. “Ci sono sentenze e accertamenti dell’Ispettorato del lavoro che censurano questa prassi”, rincara Sandro Pagaria della Filcams Cgil. Invece tutto va avanti da otto anni e la partita rimane aperta. Anche in Parlamento, dove una proposta di legge del Movimento 5 stelle per riformare appalti e cooperative è in Commissione lavoro alla Camera dal 2018, dove però qualcosa si è inceppato.
Ma andiamo con ordine e ai giorni nostri. “Con la pandemia per noi non è cambiato moltissimo, non sono stati particolarmente intaccati i numeri, né i volumi di lavoro”, dichiara l’ad di Sicuritalia al Corriere.it il 12 marzo scorso. Il suo gruppo conta 15mila dipendenti in tutta Italia, 100mila clienti e un ricavo consolidato da 650 milioni che l’azienda conferma anche per il 2020. Un traguardo importante in un settore, quello della sicurezza privata, dove un’impresa su due lamenta il peggioramento della condizione economica a causa della pandemia (dati Osservatorio Federsicurezza). In Italia il comparto vale 3,5 miliardi di euro, ma il 40% del fatturato è prodotto dalle dieci aziende più grandi. Sicuritalia siede in testa al podio e ha da poco acquisito, tra gli altri, anche chi stava al secondo posto, l’Ivri, incorporata nel 2019. Un successo da festeggiare, visti i tempi che corrono. Se non fosse per i dipendenti della vigilanza non armata che invece la crisi la sentono eccome, da otto anni. Si tratta degli oltre quattromila soci lavoratori della cooperativa Sicuritalia servizi fiduciari, che fa parte del gruppo. Chi sono i soci lavoratori lo dice la legge sulle cooperative, stabilendo tra l’altro la loro partecipazione “al rischio d’impresa”, come “alla sua gestione” e “alle scelte strategiche”. Insomma, ben più di semplici dipendenti, come vuole l’articolo 45 della Costituzione, che “riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata”. Ma non basta. Per capire chi sono davvero i soci lavoratori della cooperativa controllata dal gruppo Sicuritalia serve altro. A cominciare dal loro famigerato contratto di categoria, il CCNL della vigilanza privata e dei servizi fiduciari.
C’è contratto collettivo e contratto collettivo, e quello di cui parliamo non è certo il migliore. Siglato nel 2013 dalle associazioni datoriali con Cgil e Cisl, deve la pessima fama proprio ai salari della sezione servizi fiduciari, che ai primi livelli non arrivano a 800 euro lordi al mese. Numeri alla mano e senza giri di parole, i tribunali del lavoro di Torino e Milano hanno stabilito che si tratta di salari al di sotto della soglia di povertà, incompatibili con l’articolo 36 della Costituzione che garantisce al lavoratore una retribuzione “proporzionata alla qualità e quantità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Come non bastasse, il contratto è scaduto da sei anni, e nemmeno il richiamo dei giudici è servito a stimolare un accordo tra le parti. Ma se a migliorare il contratto c’è sempre tempo, a peggiorarlo ci hanno pensato proprio i soci lavoratori della cooperativa di Sicuritalia, che da otto anni approvano deroghe per affrontare continue crisi aziendali. “All’iniziale piano di crisi del 2013 segue a ruota quello del 2017”, spiegano i sindacati. Le ragioni sono nel verbale di assemblea: “La crisi del settore, la difficile congiuntura economica e la diminuzione delle tariffe che i clienti sono disposti a pagare”. E dunque: “Un immediato adeguamento al contratto avrebbe ripercussioni sui livelli occupazionali” o peggio, “determinerebbe il dissesto economico-finanziario della cooperativa”.
Così ai soci lavoratori viene proposta la cancellazione dell’integrazione per la malattia, che l’accordo del 2013 sul CCNL volle pagata al 100 percento anche per compensare salari tanto bassi. “Chi si ammala non costa nulla perché gli spetta solo il 50 percento della retribuzione, la parte pagata dall’Inps”, chiarisce Franzoni della Uiltucs, che ricorda però come l’Istituto di previdenza non copra i primi tre giorni di malattia, detti “di carenza”, e che il contratto collettivo pone interamente a carico dell’azienda: “Grazie alle deroghe, in quei tre giorni il lavoratore non prende un euro”. Ma non solo. “Per ogni ora di straordinario i lavoratori hanno avuto molto meno di quanto previsto dal CCNL, indifferentemente che si trattasse di lavoro diurno, notturno o festivo”, spiega il sindacalista. E aggiunge: “Con salari così bassi, gli straordinari fanno la differenza, arrivando anche a un terzo del guadagno. L’effetto di questi tagli è facilmente intuibile”.
Dopo otto anni, la fine delle deroghe al contratto collettivo era prevista per il prossimo primo maggio. Il triennio dal 2017 al 2019, anno dell’ultimo bilancio disponibile, vede la cooperativa in utile e i fatturati in crescita. Ma con la pandemia le cose vanno di nuovo male. E se l’amministratore delegato del gruppo non sembra preoccupato – “Dove c’è stata qualche flessione, come nel trasporto valori, è stata compensata dallo sviluppo” – la cooperativa parla di “grave crisi economica”, e di “grave perdita di esercizio” nel caso si procedesse al previsto adeguamento al CCNL. Inoltre, a preoccupare l’azienda ci sono anche “gli ulteriori costi che la Cooperativa dovrà sostenere per l’ormai prossimo rinnovo del contratto di categoria”. Lo stesso rinnovo che manca da ormai sei anni. “Ancora danni economici imposti surrettiziamente”, denunciano i sindacati in una lettera che invita i soci lavoratori a contattare l’azienda, richiedere il regolamento e rivendicare la partecipazione telematica. L’azienda risponde, ma qualcosa non torna. Perché nel regolamento del 2018 che l’azienda allega alle risposte non c’è traccia delle deroghe sugli straordinari. Anzi, si dichiara di applicare le maggiorazioni previste dal CCNL. “Strano, visto che nella convocazione dell’assemblea del prossimo 20 aprile si propone di prorogare il regolamento del 2017, quello con le deroghe”, fanno notare i sindacalisti. Contattata da ilfattoquotidiano.it, ad ora l’azienda non ha ritenuto di fornire informazioni in merito. Quanto alle buste paga che alcuni lavoratori hanno accettato di mostrare mantenendo l’anonimato, le maggiorazioni ribassate dalle deroghe sono riportate inequivocabilmente. “Non ci stupiamo”, commentano i sindacati, che contestano l’azienda nel metodo ancor prima che nel merito. “Sono le premesse di un’assemblea che si terrà a porte chiuse, dove a rappresentare i lavoratori sarà una persona indicata dall’azienda”, affermano dalla Filcams, e denunciano la “raccolta di deleghe in bianco”. Come per gli anni precedenti, i sindacati escludono che si rispetti la volontà dei lavoratori. “Purtroppo la loro consapevolezza è nulla o molto scarsa. E in ogni caso chi guadagna 800 o 900 euro lordi al mese è in una condizione di pressione tale da piegarsi alle richieste del datore”, ragiona Franzoni della Uiltucs.
Quanto al merito, la pietra angolare di tutta la vicenda è la legge 142 del 2001 sulle cooperative. Ma se l’articolo 3 garantisce ai soci lavoratori “un trattamento economico complessivo non inferiore ai minimi previsti dalla contrattazione collettiva nazionale della categoria”, il successivo articolo 6 consente agli stessi soci di deliberare, in caso di crisi aziendale acclarata, “forme di apporto anche economico alla soluzione della crisi, in proporzione alle disponibilità e capacita finanziarie”. Ed è proprio applicando la norma che la cooperativa Sicuritalia approva i suoi piani di crisi e il regolamento sociale che deroga al CCNL. Un’applicazione corretta? Nel 2020 il tribunale del lavoro di Bergamo ha dato ragione a un lavoratore della cooperativa di Sicuritalia, condannata a risarcirlo per gli straordinari in deroga al contratto collettivo. La sentenza si aggiunge ad altre e anche la Cassazione, pronunciandosi sulla materia nel febbraio 2019, ha affermato che il principio costituzionale della “sufficienza della retribuzione” si soddisfa proprio rispettando i minimi previsti dai CCNL di categoria. Figurarsi se si può derogare a un contratto giudicato al di sotto della soglia di povertà, verrebbe da dire. Eppure, in una sentenza dello scorso febbraio, la stessa Cassazione ha stabilito che le deroghe al contratto dettate dallo stato di crisi aziendale vanno considerate nel rispetto della funzione sociale delle cooperative e dello scopo di mutualità tutelati dall’articolo 45 della Costituzione. Un vero groviglio, tale da scoraggiare ulteriormente chi intenda impugnare il regolamento di una cooperativa. Proprio per questo è pressoché unanime l’opinione di legali e magistrati: i tribunali non possono fare il lavoro del legislatore, ci vuole una legge.
Il tentativo più recente di riformare la materia, anzi di tagliare la testa al toro, è quello della proposta di legge Costanzo, depositata dal M5s a fine 2018 durante il primo governo Conte e attualmente in Commissione lavoro. Alla proposta ha lavorato il giuslavorista Piergiovanni Alleva, che sulla questione ha un’opinione risolutiva: “L’articolo 6 della legge 142 sui soci lavoratori delle cooperative va eliminato perché è la legalizzazione dell’auto-sfruttamento”. E infatti la proposta di legge lo cancella integralmente allo scopo di “impedire autoriduzioni della retribuzione”. Ma è la stessa prima firmataria della proposta, la ex cinquestelle Jessica Costanzo a frenare facili entusiasmi: “Dall’estate scorsa assistiamo a una pantomima di rinvii sulle scadenze per depositare gli emendamenti”. E di questo passo si allontana anche il giorno in cui la legge arriverà in Aula, sempre che ci arrivi. “In gioco ci sono enormi interessi e già nell’alleanza tra Pd e M5s sono emersi segnali di contrarietà alla riforma”, spiega la deputata. Così a una legge ambigua, a sentenze contrastanti e a un contratto che non si vuole rinnovare, va aggiunta la politica che si volta dall’altra parte. L’unica certezza è nei numeri: in Italia i lavoratori poveri sono più di tre milioni. Con il Covid la povertà è aumentata soprattutto nelle famiglie con un solo lavoratore. Tra i working poor italiani ci sono anche molti lavoratori della vigilanza privata, gli stessi che ci hanno misurato la temperatura mentre entravamo in un supermercato, n, in ospedale o nelle sedi di qualche ente pubblico.