“A più di un anno dall’inizio della pandemia nel nostro negozio non viene misurata la temperatura all’ingresso e il contingentamento è saltato. Due colleghi sono in terapia intensiva per il Covid e io mi sento un pericolo per la mia famiglia ogni volta che torno a casa”. Paola Catapano lavora nel supermercato Carrefour di viale Ciamarra a Roma. La situazione che vive ogni giorno è quella di migliaia di addetti del settore: stress, paura del contagio, liti continue con clienti e direttori dei negozi per il rispetto delle regole, a fronte di una retribuzione media che va dai 6-700 euro di un part-time fino ai 1200 di un tempo pieno. Se durante il primo lockdown l’attenzione era alta e le norme anti Covid generalmente rispettate, qui la sensazione di ‘liberi tutti’ che aveva preso il sopravvento in estate non è stata scalfita dalle nuove ondate. “Gli addetti alla sicurezza all’esterno dei negozi sono spariti da mesi e di fatto l’ingresso nei supermercati è libero”, racconta Alessio Di Labio della Filcams Cgil. “Anche tra i clienti è calato il livello di attenzione: da chi non porta la mascherina a chi non mantiene il distanziamento, far rispettare le regole è sempre più difficile”. Nonostante questo, la richiesta di inserire i lavoratori del commercio alimentare al dettaglio tra le categorie prioritarie per la vaccinazione è stata respinta dal governo.
Nei supermercati si lavora senza sosta da febbraio 2020. “Sono rimasti sempre aperti”, ricorda Francesco Iacovone del Cobas. “Sabato domenica e festivi, Natale e Pasqua compresi nonostante il lockdown: è davvero come un ospedale in questo senso. I medici hanno scelto una professione di emergenza, i lavoratori del commercio non si sarebbero mai immaginati una situazione di questo tipo. E vivono nel terrore del contagio”. Leonardo, dipendente Coop del centro commerciale Casilino, a Roma, non può dire con certezza di aver contratto il virus in negozio, “ma quello che so è che nei supermercati nessuno rispetta le regole”, racconta. “È come se la pandemia non fosse mai esistita e noi, da indispensabili, siamo diventati invisibili”. Lui è in isolamento da 20 giorni, in attesa di un tampone negativo. “In casa ci siamo ammalati tutti, mia moglie è stata molto male: è terribile essere la causa di un contagio in famiglia”.
Nel suo negozio i casi di Covid tra i lavoratori sono stati 15 su 160 dipendenti. Ma sui numeri dei contagi c’è molto riserbo: “Le aziende hanno protocolli anti Covid che pretendono la riservatezza, come se ammalarsi fosse una colpa”, racconta ancora Iacovone. I Cobas hanno analizzato i dati di alcuni negozi di Unicoop Tirreno nel Lazio dove sono nel comitato Covid. “Si va dal 27% di addetti contagiati alla Coop di Campagnano al 14% di Vetralla all’8% dell’Ipercoop Euroma2. E la situazione di questa azienda non è tra le peggiori: siamo preoccupati per i tanti supermercati che tengono nascosti i dati”. I contagi però ci sono, ovunque: “Nonostante l’applicazione dei protocolli aziendali i casi sono stati più di 20 su circa 300 dipendenti”, racconta Enea, che lavora al Carrefour di Carugate, nel milanese. “Non c’è più filtraggio della clientela e la distanza di un metro non è sempre garantita. Molto dipende dalla sensibilità del direttore del punto vendita: spesso è il dipendente che si deve attivare per i controlli, ma ci si espone e si rischia”.
All’Eurospin di Termini Imerese, provincia di Palermo, si sono contagiati 10 lavoratori su 20: “Le aziende non predispongono più i controlli all’ingresso per fornire i guanti e assicurare la sanificazione delle mani, ormai tutto quello che si tocca all’interno dei negozi è un potenziale veicolo di contagio”, dice Domenica Calabrò, della Fisascat Cisl regionale. Tra i lavoratori c’è grande paura, tanto che nessuno ha accettato di parlare con ilfattoquotidiano.it, anche dietro anonimato: “Temono il licenziamento, che a Palermo significa essere condannati alla disoccupazione o al lavoro nero”. Ma il clima sembra essere questo a ogni latitudine: “Siamo spaventati, oggi si pensa solo a mantenere il proprio posto e i diritti finiscono in secondo piano, salute compresa”, dice Piero Sommaviva, dipendente dell’Esselunga a La Spezia. “Tra i dipendenti ci sono stati molti contagi ma nessuno ha dichiarato di aver preso il Covid in negozio, provarlo è quasi impossibile”. Secondo gli ultimi dati Inail sulle denunce di contagi Covid, solo l’1,8% di queste è nel commercio. “Ma se ci concentriamo sulla mortalità l’incidenza del settore sfiora il 10%”, spiega Vincenzo Dell’Orefice della Fisascat Cisl. “Questo può significare che per questi lavoratori è più difficile identificare il nesso di causalità tra contagio e luogo di lavoro”.
Sindacati e associazioni di settore hanno chiesto di inserire questi lavoratori tra le categorie prioritarie per la vaccinazione. Proposta respinta dal governo: “Gli anziani, i fragili e il comparto della sanità vengono prima, poi bisogna guardare ai lavoratori che rischiano di più”, dice ancora Alessio Di Labio. Per l’Inail gli addetti del commercio al dettaglio rientrano nella categoria di rischio medio-basso, dato che nel settore secondo l’istituto esiste una “presenza intrinseca di terzi ma controllabile organizzativamente”. “Non è così, perché il contingentamento di fatto è saltato”, attacca Di Labio. Lo scarso controllo messo in atto delle aziende, che temono di perdere clienti imponendo file più lunghe della concorrenza, trova forza nella mancanza di un criterio nazionale: il dpcm del 20 ottobre, nell’ambito delle norme di sicurezza per gli esercizi commerciali, impone un limite chiaro solo per i negozi sotto i 40 metri quadrati, con l’entrata di un cliente alla volta. Per negozi di metratura superiore, si stabilisce che “l’accesso è regolamentato in funzione degli spazi disponibili”.
Troppo poco: “Su questo sono intervenute alcune ordinanze regionali e i comitati Covid delle aziende – ricorda ancora Di Labio – ma senza un limite nazionale e in assenza di personale addetto alla sicurezza, il contingentamento scatta solo quando la situazione diventa palesemente insostenibile”. Rimane il fatto che i dipendenti si ammalano e muoiono: gli ultimi casi a Roma, con due vittime in tre giorni alla fine di marzo. E ora che la prospettiva del vaccino anticipato sembra svanita i lavoratori sono esasperati: “Io ho 49 anni – racconta ancora Paola Catapano – a questo punto dovrò vivere altri mesi con la paura di prendere il virus e contagiare i miei figli. Giro tra i reparti e incrocio centinaia di persone ogni giorno. Durante il primo lockdown non ci siamo mai fermati, eravamo sul campo anche quando non si trovavano mascherine e gel igienizzanti. Ora dovremmo essere inseriti tra le categorie a rischio e invece non ci considera nessuno”.