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Vitamina D, un aiuto contro il covid? In Gran Bretagna somministrata a 2 milioni e mezzo di persone

Anche se non è ancora condivisa la sua azione protettiva, in Inghilterra l’hanno già somministrata a due milioni e mezzo di persone. E in Italia, un gruppo di scienziati ha firmato un appello per fare altre indagini. Ecco tutte le ragioni a favore del suo utilizzo

di Vita&Salute per il Fatto

Tra le possibili cure anti Covid, viene considerata in alcuni ambienti scientifici la poco costosa vitamina D. Attualmente però il Ministero della salute è stato perentorio nel pronunciare il suo diniego, ribadendo che non ci sono ancora evidenze scientifiche che la vitamina D giochi un ruolo nella protezione dall’infezione da nuovo coronavirus. Stroncatura in piena regola, affidata alla Circolare del 30 novembre 2020 “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da Sars-CoV-2” nella quale si ribadisce che “non esistono, a oggi, evidenze solide e incontrovertibili (ovvero derivanti da studi clinici controllati) di efficacia di supplementi vitaminici e integratori alimentari (per esempio vitamine, inclusa vitamina D, quercetina…), il cui utilizzo per questa indicazione non è, quindi, raccomandato”, firmato Giovanni Rezza, attuale direttore generale.

Eppure, diversi ricercatori dissentono e non ci stanno. E così oltre 70 scienziati italiani hanno chiesto che il legame tra vitamina D e Covid, ancora poco indagato, sia oggetto di uno studio mirato da parte delle istituzioni scientifiche di casa nostra. E non solo. Nel frattempo – ribadiscono – dovrebbe essere effettuata la somministrazione preventiva – come hanno fatto le autorità sanitarie inglesi, prescrivendo vitamina D a 2 milioni e mezzo di persone – non essendo segnalati effetti collaterali d’interesse. C’è da aggiungere che la presa di posizione dei ricercatori non è campata in aria visto che, a oggi, sono più di 340 i lavori condotti in tutto il mondo durante il 2020 e pubblicati su PubMed. Risultato? Numerosi di questi studi hanno evidenziato la presenza di ipovitaminosi D (carenza di vitamina D) nella maggioranza dei pazienti affetti da Covid-19, in particolare se in forma severa, e di una più elevata mortalità a essa associata. In pratica, sta divampando un’accesa querelle che vede contrapposti sostenitori e detrattori della vitamina D, polemica che non facilita il confronto. Cerchiamo di capire come stanno le cose.

70 firmatari

C’è, per esempio, il professor Giancarlo Isaia, specialista in endocrinologia, medicina interna e medicina nucleare del Dipartimento di scienze mediche dell’università di Torino, tra i firmatari dell’appello al governo per indagare in maniera più approfondita sul ruolo della D – in base alle nuove risultanze – che parla di circolare discutibile. Si rimprovera a chi ha redatto il documento di aver collocato la vitamina D sullo stesso piano di altre vitamine e integratori, mentre è molto simile a un ormone, cioè a una sostanza che agisce a distanza e che esercita effetti metabolici. Si ricordano altre risultanze che, pur se è possibile metterle in discussione, meritano di certo un approfondimento ulteriore. Di che cosa si tratta? Isaia parla anche dello studio di cui è coautore e dal quale viene fuori che il Coronavirus ha determinato più contagi e decessi proprio nelle regioni che sono meno esposte ai raggi solari UV. In pratica, secondo il professore Isaia, i risultati delle indagini della sua équipe “sono coerenti con i possibili effetti benefici della radiazione UV solare sulla diffusione del coronavirus e sulle sue manifestazioni cliniche. Infatti, emerge che la radiazione UV riesce sia a neutralizzare direttamente il virus, sia a favorire la sintesi della vitamina D che, per le sue proprietà immunomodulatorie, potrebbe svolgere un ruolo antagonista all’infezione e alle sue manifestazioni cliniche”.

Sempre secondo il professor Isaia, il numero di morti e contagiati in ogni regione italiana è inversamente correlato con il grado di radiazioni ultraviolette. In effetti, laddove si sono avute tante radiazioni (durante la ricerca), per esempio a Lampedusa, si è registrato un numero inferiore di decessi rispetto alla Lombardia e al Trentino Alto Adige. E ancora. Man mano che la vitamina D scende si segnalano più morti e più persone affette da Covid. La conclusione? Se tutti i giorni si prendesse l’abitudine di sottoporsi a 20 minuti di bagno solare moderato, con le opportune precauzioni, al mare, alla fine della stagione estiva si otterrebbe la produzione di livelli di vitamina D piuttosto consistenti. È chiaro che i bagni di sole vanno presi in qualsiasi periodo dell’anno. È bene ricordare che la vitamina D viene immagazzinata nel tessuto adiposo e poi gradualmente rilasciata. L’Italia, purtroppo, è uno dei paesi in cui circa il 70% della popolazione è esposta a carenze di questa vitamina, e non a caso insieme alla Grecia e alla Spagna siamo i Paesi a più elevata prevalenza di ipovitaminosi D. Non abbiamo la cultura tipica del naturismo nordico che prevede bagni di sole, esercizio fisico e moto nella natura. Regole fondamentali per uno stile di vita capace di assicurare benessere e il pieno di vitamina D.

“Dati, questi, che forniscono elementi di riflessione più che interessanti. Dati che permettono un intervento potenzialmente utile a tutta la popolazione anziana, carente di vitamina D”, ha dichiarato il professore Isaia. In più, a sentire il ricercatore, sono indispensabili altri studi controllati, per verificare ulteriormente l’efficacia della vitamina D contro il Covid-19, sia per la velocità di negativizzazione, sia per l’evoluzione benigna della malattia in caso di infezione se somministrata con obiettivi di prevenzione, soprattutto nei soggetti anziani, fragili e istituzionalizzati. “La vitamina D ha un notevole effetto attivo sull’immunità. Vi chiederete come. Ebbene, potenziando le nostre difese. In parole povere, somministrandola abbassiamo l’evoluzione clinica sfavorevole. Ciò non toglie che possiamo essere comunque contagiati dal virus ma riteniamo che la vitamina D sia un’arma per arrestare il decorso sfavorevole dovuto al Covid e ridurre l’incidenza della mortalità”, ha più volte affermato lo specialista.

Effetti positivi sul decorso della malattia

E non è tutto. Uno studio condotto dall’università di Padova mostra come la somministrazione di vitamina in soggetti affetti da Covid-19 con comorbidità abbia potenziali effetti positivi sul decorso della malattia. La ricerca “Effectiveness of In-Hospital Cholecalciferol Use on ClinicalOutcomes in Comorbid Covid-19 Patients: A Hypothesis-GeneratingStudy” è stata pubblicata dalla rivista Nutrients. L’indagine ha esaminato 91 pazienti con età media di 74 anni, di cui 36 trattati con alte dosi di vitamina D per 2 giorni consecutivi e gli altri 55 solo con le cure standard attualmente previste. La ricerca ha evidenziato come le persone con malattie pregresse trattate con la vitamina D hanno avuto un esito particolarmente più favorevole degli altri: “Il rischio di andare incontro a decesso o trasferimento in terapia intensiva era ridotto dell’80% rispetto ai soggetti che non avevano assunto la vitamina D”, ha detto il professor Sandro Giannini dell’università di Padova. La D ridurrebbe l’incidenza della mortalità per Covid-19 del 60%.

Cifre pazzesche arrivano anche dalla ricerca pubblicata dal Social Science Research Network, se le cose stessero esattamente come si dice. Lo studio ha valutato l’efficacia del calcifediol – una vitamina D3 – su più di 550 persone che sono state ricoverate nei reparti Covid dell’Hospital del Mar a Barcellona, in Spagna. I pazienti sono stati assegnati in modo casuale o come destinatari del trattamento con calcifediolo o come controlli al momento del ricovero, prima di ricevere cinque dosi di vitamina a intervalli crescenti di due, quattro, otto e 15 giorni. E stando alle evidenze, questo tipo di terapia potrebbe “salvare molte migliaia di vite”. Restiamo in attesa di altre ricerche che confermino questi primi dati.

Dove si trova

Secondo l’Airc (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro), la vitamina D non serve solo a fissare il calcio nelle ossa, una funzione fondamentale per prevenire il rachitismo nei bambini e l’osteoporosi negli anziani. Nella sua forma attivata, la vitamina agisce in realtà come un ormone che regola vari organi e sistemi e ha un’azione modulante nei confronti dell’infiammazione e del sistema immunitario. Una sua carenza è stata associata a diversi tipi di malattie, dal diabete all’infarto, dall’Alzheimer all’asma o alla sclerosi multipla. E ancora. Un terzo del fabbisogno giornaliero di vitamina D proviene dall’alimentazione. I cibi in cui se ne trova di più – oltre a quelli che ne sono arricchiti a livello industriale, come molti cereali per la prima colazione – sono i pesci grassi (come salmone, sgombro e aringa), il tuorlo d’uovo e il fegato. Tutto il resto si forma nella pelle a partire da un grasso simile al colesterolo che viene trasformato per effetto dell’esposizione ai raggi Uvb del sole. Una volta prodotta nella cute o assorbita a livello intestinale, la vitamina D passa nel sangue. Qui una proteina specifica la trasporta fino al fegato e al rene, dove viene attivata.

Articolo di Massimo Ilari per Vita e Salute

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