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Antonio Conte, l’emblema del ‘manager che vuole vincere’

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Sono certo che non sarò mai tacciato di tradimento alla mia fede azzurra se ritorno sull’argomento di Antonio Conte “allenatore vincente”. Già nell’agosto scorso, su queste colonne, scrissi che da tifoso del Napoli avrei preferito lo scioglimento del suo rapporto professionale con l’Inter perché lo scudetto non gli sarebbe, purtroppo, sfuggito. I “segnali” di una gestione vincente all’interno di una organizzazione si percepiscono quando si prepara il tessuto culturale per poi arrivare al successo. Tracciare la strada del successo, pianificare la vittoria è una fase molto più difficile da valutare perché noi tutti poi siamo abituati a vedere l’ultima scena del film, la vittoria.

Ma quei segnali, molti dei quali politically uncorrect, erano invece molto evidenti. Innanzitutto “un manager che vuole vincere” in una azienda privata si fa pagare tanto a dimostrazione di una capacità negoziale che compensa pure gli squilibri caratteriali difficili da sopportare. Si tratta di un tema ai confini tra etica e retorica. Perché non stiamo parlando di un Ceo che ha praticamente il potere di stabilire autonomamente (o quasi) il proprio stipendio ma di un manager, sebbene apicale, che ha la responsabilità primaria dei risultati (non solo sportivi) di una azienda calcio.

In secondo luogo un manager che vuole vincere impone investimenti ingenti per la crescita e lo sviluppo delle competenze dei suoi uomini, nonostante la proprietà manifesti difficoltà finanziarie. Si tratta sicuramente di una visione miope e di breve periodo, ma andate a domandare ai tifosi dell’Inter se sono più contenti di vincere il trofeo del fair play finanziario o lo scudetto.

In terzo luogo, un manager che vuole vincere deve combattere la complacency (compiacenza) dei dirigenti dell’organizzazione. La compiacenza (spesso autocompiacimento) è un assassino delle organizzazioni di successo perché determina un sentimento di approvazione compiaciuta o acritica di se stessi o dei propri risultati anche se non brillanti. Diagnosticare e denunciare l’autocompiacimento, come ha fatto Conte l’anno scorso, può essere molto difficile. Ciò è dovuto al fatto che la sensazione di compiacenza è privata. A differenza di un errore tecnico, di un giocatore ribelle o di un flop in un torneo, l’autocompiacimento non è qualcosa che vediamo facilmente. La sua radice è nel cuore delle persone e nella loro motivazione. A meno che non siamo veramente introspettivi, potremmo anche non notarlo in noi stessi. Inoltre, potremmo scambiare l’autocompiacimento per la contentezza. In una società dove un successo arriva mediamente ogni dieci anni, ha messo in riga tutti con un messaggio preciso: ci si compiace solo salendo sul predellino con la scritta “the winner is…”.

Infine, sembra ovvio ma non lo è, un manager che vuole vincere deve vincere. Ed in due anni l’Inter ha fatto, unica squadra italiana, una finale di Europa League ed ora si appresta a vincere lo scudetto. Non dopo, consentitemi l’inevitabile contributo scaramantico, averle prese dal mio Napoli domenica sera.

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