Quando l’indignazione avrà lasciato spazio alla necessità di trovare un compromesso di fronte a una rottura che pare difficilmente sanabile, bisognerà ragionare su alcuni fatti. Che ci raccontano di come la nascita della Superlega, oltre ad essere un processo irreversibile, è anche qualcosa che, lo racconta il passato, potrebbe spostare ben poco dell’economia dei risultati nei campionati domestici. La discussione non può prescindere da una presa di coscienza: i giovani tifosi di oggi non sono gli stessi di trent’anni fa e il modo di fruire lo spettacolo è in continuo divenire. Due aspetti che i club più attrattivi non possono ignorare. Non abbiamo scoperto stanotte che i soldi muovono il calcio. Avviene da almeno vent’anni.
Due decenni in cui la Serie A è stata vinta da tre squadre, guarda caso le stesse che hanno partecipato alla fondazione della Superlega. Nelle due stagioni precedenti era toccato a Roma e Lazio, con le conseguenze finanziarie che conosciamo. Le “favole” che, secondo i detrattori della nuova creatura annunciata, vengono messe a repentaglio con la “competizione dei ricchi” negli ultimi due decenni sono esistite arrivando seconde, terze, quarte, quinte. E vincendo una volta ogni 40 anni, come accaduto con Verona e Sampdoria. È più probabile che ciò non accada mai più o che accada con la stessa (misera) frequenza? Insomma, la nascita della Superlega mette davvero a repentaglio la possibilità per le ‘piccole’ di farsi largo o esiste – da decenni – un gigantesco gap per il quale nessuno si è stracciato le vesti? Al netto di un potenza economico-finanziaria che si allargherebbe, vale la pena ricordare che la stagione delle partecipanti alla Superlega sarebbe così zeppa di impegni da rendere complicato anche il campionato.
Un piccolo esempio di come l’assioma “con i club più ricchi, gli altri non vinceranno mai” possa risultare fallace viene dalla pallacanestro. L’Olimpia Milano è l’unico club italiano di basket con licenza pluriennale di Eurolega (la competizione a cui la Superlega si avvicinerebbe davvero, non alla sempre troppo citata a sproposito Nba) e ha un budget (di molto) superiore a tutte le altre squadre. Bene: ha vinto 3 degli ultimi sei campionati. Nelle tre stagioni senza scudetto non è neanche arrivata in finale, dove si sono contese il titolo Venezia (due volte campione), Sassari (una volta campione), Reggio Emilia e Trento.
Negli ultimi 8 anni Milano ha vinto 3 volte la Coppa Italia e perso una finale. Nel restante 50% dei casi non è arrivata a giocarsi il trofeo. In questa stagione – con 3 gare da giocare – è prima con appena 2 punti di vantaggio su Brindisi, che ha una gara da recuperare e l’ha battuta due volte negli scorsi diretti. Insomma: non è detto che chiuda al primo posto.
Al netto di ciò che verrà e delle parole di difesa da parte dell’Uefa, la Champions League è già oggi, di fatto, un circolo privato: alle prime 5 leghe europee sono andati, due anni fa, 268 milioni (su 292) del market pool. E vale la pena ricordare che nel nuovo format presentato oggi è previsto l’invito per i club blasonati che, avendo cannato la stagione nel proprio campionato, non si sono qualificate per la stagione della principale coppa europea. Il calcio è business, chi fa il business ha deciso che vuole farlo in modo diverso. Meglio, ha deciso di farselo in proprio. Non ci sono santi né eroi, né nella Superlega né all’Uefa. Di certo, il processo va governato. Forse Aleksander Ceferin dovrebbe pensare a questo, invece che a minacciare. Non sarei così certo che lui, la Fifa, le federazioni e le leghe nazionali abbiano il coltello dalla parte del manico.