Musica

I Greta Van Fleet tornano con il loro secondo album, tra nostalgie del passato e realtà

Il problema dei Greta Van Fleet non è tanto il paragone con i Led Zeppelin, quanto proprio il fatto che i Led Zeppelin siano esistiti decenni prima di loro. E lasciamo pure stare che per lo meno a me, se è questo il punto, il loro cantante Josh Kiszka ricorda quasi più Geddy Lee dei Rush che non Robert Plant. Già prima che questo nuovo “The Battle At Garden’s Gate” fosse in lavorazione, ecco che quindi un po’ tutti si erano dati appuntamento per vedere (sentire) se, e quanto, il loro secondo lavoro li avrebbe finalmente emancipati dal rock che fu: a colmare l’attesa non sono ovviamente mancate le solite dichiarazioni di rito (le quali sempre precedono un’uscita discografica), che presentavano questa prossima prova come una specie di inno alla sperimentazione della quale, diciamolo subito, non troviamo chissà quali tracce.

“The Battle At Garden’s Gate” (uscito venerdì scorso), così come il precedente “Anthem Of The Peaceful Army”, è comunque un bel disco: scorre via piacevole, non ha particolari guizzi ma nemmeno scade nella noia. Il che non dovrebbe mai darsi per scontato. Si lascia ascoltare, e il riferimento – più che i soli Led Zeppelin – sembrano essere una miriade di band classiche: non più (voce a parte) di quanto i Porcupine Tree abbiano dichiaratamente attinto dai Pink Floyd, arrivando comunque a plasmare una propria identità.

Ed è così che credo vadano presi i Greta Van Fleet: una band di quattro giovani di belle intenzioni, che sembra arrivare a noi dopo che qualcuno, per sbaglio, ha tirato i dadi del Jumanji senza però colpo ferire. Il problema, se vogliamo, risiede proprio nella già citata aspettativa: che si tratti o meno delle stesse persone che esultano per il ritorno (o addirittura lo sbarco) del rock in Italia, a seguito della vittoria dei Maneskin a Sanremo, è tutta una questione di equilibrio.

La musica e la storia insegnano che esistono centinaia di migliaia di band simili ad altre: non per questo poco meritevoli o incapaci di sfornare se non pietre miliari almeno buoni album. Il rock, oltretutto, non è appannaggio esclusivo di chi lo ascolta o di chi ne ha scritto la storia: la cosa più bella dei Greta Van Fleet è che qualcuno, poco più che ventenne, possa guadagnare consensi nel mondo suonando alla maniera di una band di cui oggi al massimo studieremmo le gesta, o qualcuno girerebbe un biopic. Sarà pure che ai Led Zeppelin ho sempre preferito i Black Sabbath, ed è quindi anzitutto il disincanto a guidarmi, ma non ho comunque desiderio che qualcuno ripercorra le orme di Jimmy Page, alla stessa maniera di quanto poco ho voglia che Ozzy Osbourne passi staffetta e microfono ad un altro.

Ergo, se avete un’ora del vostro tempo e una manciata di curiosità, provate a giudicare questo lavoro cercando di stare nel mezzo, pensando a quanto, fossero figli vostri, avreste tutto sommato stima di questi ragazzi. Che pure non cambieranno la storia, e nemmeno il presente del rock, ma non per questo non possono ambire ad abitarvi. Qualche traccia, su tutte: Heat Above, Broken Bells, Age Of Machine, Light My Love, The Weight Of Dreams.