Non è affatto casuale che la presentazione del Recovery Plan in Parlamento coincida con le prove generali di ritorno alla normalità, il 26 aprile prossimo venturo, giorno delle riaperture e della “nuova liberazione” (sic!). Nel “rischio calcolato” che ha spinto il premier Mario Draghi a far riaprire bar e ristoranti ha pesato non poco l’eventuale e prevedibile inasprimento delle proteste movimentiste, e parecchio movimentate, di una fetta del ceto medio borghese che si va radicalizzando.

Dopo che la pandemia e i lockdown hanno affossato due milioni di aziende e 7-8 milioni di lavoratori, le contrapposizioni sociali si sono moltiplicate. Colpisce che sia montato il risentimento non tanto nei confronti dei pochi e soliti noti che hanno ricavato enormi profitti dal lockdown (grande distribuzione, Amazon in testa, comparto farmaceutico e così via) quanto invece delle categorie protette dal lavoro dipendente garantito. Ed ecco anche la retorica violenta dei vari trending hashtag legati a #IoApro, come #CuliAlCaldo.

Il tema si lega direttamente al debito pubblico ormai stellare e alla montagna di soldi europei del Recovery Plan, dato che alla fine, in ogni caso, saremo chiamati a ripagare con le tasse la voragine nei conti dello Stato. Al di là della contro-retorica di chi difende il lavoro dipendente per via del fondamentale contributo fiscale, non deve trarre in inganno il minore contributo da parte delle categorie da cui provengono in prevalenza gli agitatori riaperturisti (caso esemplare: lo chef-evasore Vissani). A ben guardare il grande ammanco nel bilancio fiscale del nostro Paese, come nel resto del nostro mondo, è quello relativo ai profitti aziendali che vengono trasportati nei vari paradisi vicini e lontani: non a caso, la prima proposta dell’amministrazione Biden ai 140 Paesi Ocse è stata di una minimum tax globale per le imprese.

Dai pochi dati ufficiali disponibili, relativi al 2017, risulta che tra Irlanda, Svizzera, Paesi Bassi, Lussemburgo, Singapore e Caraibi – i sei Paesi che intercettano quasi tutta la torta dei trasferimenti dei profitti aziendali – si possono contare ben 22 miliardi e 300 milioni di euro provenienti dall’Italia. Ora, nel bilancio fiscale del nostro Paese il reddito delle società, in termini di utili e plusvalenze, rappresenta il 5% del gettito complessivo. Cinque per cento! Un dato che ci consegna al 36esimo posto nelle classifiche dei Paesi sviluppati.

Del resto, solo se fossero state pagate in Italia le tasse sui 22,3 miliardi di utili legalmente trasferiti nei sei paradisi di cui sopra, sarebbe da aggiungere un bel 15% in più ai 36 miliardi e 300 milioni di euro che il fisco italiano registra come utili d’impresa. Per non dire, poi, di tutto il resto del sistema delle elusioni ed evasioni, nonché delle opacità internazionali tra cui si muovono persino i nostri grandi gruppi pubblici (da Eni a Leonardo).

Un tale assetto fiscale vede ormai platealmente basate all’estero, nei sistemi fiscali più favorevoli, non solo i nuovi grandi trust multinazionali ma quasi tutte le più importanti aziende private e familiari italiane, con poche lodevolissime eccezioni: e qui potrebbe partire la celeberrima melodia casalingo-pastaiola di Vangelis, dato che la Barilla è un caso esemplarmente virtuoso, ed è stato calcolato che, sempre nel 2017, occupando dipendenti pari alla somma di quelli delle filiali italiane di Amazon, Google, Facebook e Apple, pagava imposte italiane per 106 milioni di euro, contro i 18 in tutto che arrivavano alla nostra Agenzia delle Entrate dai big tech.

Il nuovo enorme buco fiscale che stiamo facendo sotto il Paese s’espande per i ristori, sì, ma pure, per quanto riguarda il piano Recovery, sull’impianto retorico di una grande riconversione ecologica. Per quel che si è capito sinora, una bella fetta di queste risorse del Green New Deal finiranno dritte dritte alle solite grandi aziende, come si è visto dopo la riunione ristretta di Draghi e dei ministri competenti con Elkann, De Scalzi, Starace and co., sulla riconversione energetica del Paese.

Ora, non è che per forza i soldi del Recovery debbano escludere i gruppi che per tradizione e dimensioni sono più presenti sulla scena economica, magari per aiutarli a diventare più green, da storici inquinatori quali sono. Ma non è nemmeno possibile che proprio lorsignori possano cantare per primi “sul ponte sventola bandiera verde”. Anche perché, quando ci sarà da restituire al fisco, facilmente la fetta dei profitti delle aziende di primario livello sarà elusa, evasa, spostata in paradisi fiscali, come accade da anni.

La riconversione ecologica del nuovo Piano, tanto quanto i ristori con i vari sfondamenti di bilancio, saranno pagati solo astrattamente dall’Europa e dallo Stato: montagne di nuove banconote della Bce o nuovi Ue-bond non bastano, alla fine i soldi verrano rastrellati soprattutto dalle nostre tasche. Ora il rischio è con il Recovery si aggiunga beffa alla beffa: altro che #CuliAlCaldo; parafrasando un adagio del principe dei furbetti del quartierino, bisogna stare attenti a chi vuole fare il Verde coi nostri didietro!

È lo stesso problema più volte sottolineato a proposito del novello autocrate di Milano, Giuseppe Sala, che si sogna già nei panni della nostrana Annalena Baerbock: la candidata cancelliera dei Verdi in Germania è effettivamente leader della corrente ambientalista pragmatica, ma non vanta certo un curriculum tutta Expo e cementificazioni, Milano da ri-bere e verde-Banca Intesa dovunque, non s’improvvisa a predicare adesso sostenibilità e piste ciclabili con i Cinque Cerchi olimpici stilizzati nel simbolo della lista elettorale.

Anche Draghi e i suoi ministri tecnocratici, per quanto siano efficienti e irreprensibili, nonostante qualche conflitto d’interessi di troppo (vedi anche solo il caso di Stefano Cingolani alla Transizione ecologica, che è un manager in aspettativa di Leonardo), non possono pensare di giocare così a cuor leggero con le sensibilità ambientaliste. Rischiano di dover affrontare le proteste non solo degli autentici Verdi, ma anche di nuove e più grandi piazze del nostro scontento generale, dei “verdi di bile” tartassati destinati all’ennesimo spennamento fiscale in favore dei soliti noti.

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