Quando iniziò a circolare l’idea concreta di una Superlega trovai la proposta talmente assurda da riderci su. Un’idea talmente lontana dalla mia concezione di sport da ritenerla impraticabile. Per questo le notizie delle ultime ore mi hanno provocato un senso di tristezza, ma anche di repulsione per ciò che il calcio, praticato con scarsi risultati e amato alla follia fin da piccolo, sta diventando. La deriva era sotto gli occhi di tutti, con i giocatori diventati ormai strumenti in mano ai procuratori e società impegnate nelle loro acrobazie per realizzare plusvalenze, ma credo che questo mega-torneo possa essere ritenuto con merito uno dei punti più bassi mai toccati da questo sport.
Dico questo perché una Superlega cancella definitivamente dai campionati nazionali la componente più importante di qualsiasi sport: la competizione. Come può esserci competizione se si punta a creare un ancor più ampio divario (che già esiste e che in Italia è più accentuato rispetto a qualsiasi altro campionato europeo di prima fascia) tra le squadre che partecipano a un torneo nazionale?
È proprio in questa triste direzione che va, però, l’idea dei 12 club europei: escludere possibili avversari sia a livello nazionale che europeo per preservare il potere, il diritto alla vittoria. “Preservare”, in riferimento agli investimenti, è uno dei termini usati dagli ideatori di questo fantomatico torneo tra i “migliori” (ma poi migliori in cosa se ci sono squadre che non vincono un campionato dagli Anni 60, come il Tottenham, o una competizione internazionale da 25, come la Juventus?), un concetto che nello sport non ha alcun senso: nello sport si conquistano e, al massimo, si riconquistano trofei, non si “preservano”. Ciò che la Superlega può preservare è solo il presunto diritto di una autoproclamata élite del calcio a rimanere tale, escludendo il resto del mondo dalla competizione.
Si parla di introiti per ogni società partecipante fino a 350 milioni di euro. Una cifra esorbitante se si tiene conto del fatto che, generalmente, queste sono anche le squadre che ricevono più soldi dai diritti tv, dal merchandising (una fonte di guadagno legittima e sulla quale non si può affatto sindacare) e dalle varie tournée internazionali. Così, il divario già enorme tra loro e le altre partecipanti ai vari campionati nazionali e alle coppe europee diventerebbe incolmabile. Ma questi soldi, vogliono farci credere, serviranno a rilanciare il sistema calcio europeo. “Ma come?”, mi chiedo. Creare divario tra una élite del calcio e tutte le altre squadre rischia solo di rendere i nostri campionati più prevedibili, noiosi e poco attraenti per gli appassionati.
Inoltre, se si escludono questi 12 club, chi si prenderà la briga di investire nel calcio, in campionati e competizioni europee con esiti già scritti? E per voler essere un po’ romantici (concedetecelo, stiamo parlando di sport!): siamo davvero disposti a non vedere più il Leicester vincere la Premier, l’Atalanta andare a sfidare il Real in Champions, ma anche semplicemente realtà più piccole come l’Hellas Verona non concedere i tre punti alla Juventus? Io no.
Il calcio deve essere riformato, reso più sostenibile. Si tratta di una rivoluzione che le leghe nazionali non sono state capaci di attuare negli ultimi 20 anni. Ma non è (solo) colpa delle piccole: nelle leghe la voce grossa la fanno i club che contano. La Superlega non è un modo per risolvere il problema, ma solo per scavare un fossato insuperabile tra chi si autoproclama vertice del calcio mondiale e chi non ha diritto ad aspirare a tanto. Non per meriti sportivi, ma solo per una scelta presa a tavolino dalle proprietà (più ricche). Cosa c’è di sportivo in tutto questo?
Il problema, a mio avviso, si risolve puntando verso la direzione opposta. Mi riferisco, ad esempio, al sistema inglese della redistribuzione dei diritti tv. In Premier League, il campionato più seguito al mondo e, di conseguenza, quello che riesce ad attrarre anche il maggior numero di investimenti, gran parte degli introiti viene redistribuita in parti uguali tra i club, con le differenze che si creano solo in base al numero di partite trasmesse e a una quota relativa ai meriti sportivi. Questo fa sì che, dati 2018-19 forniti dalla Premier, la squadra che ha ricevuto più soldi dalle tv sia stata il Liverpool con 152 milioni di sterline, mentre l’ultima, l’Huddersfield, 96,6 milioni. Tra il Liverpool e il Wolverhampton (127 milioni), ottava squadra per introiti tv, ballano solo 25 milioni: quindi i Reds ricevono il 19% in più rispetto ai Wanderers e il 58,3% in più dell’Huddersfield.
Nello stesso anno, in Italia, la Juventus ha ricavato dalle tv 85,5 milioni di euro, secondo i dati forniti da Calcio e Finanza, mentre il Frosinone appena 36,5. Tra i Bianconeri e l’ottava squadra più pagata, la Sampdoria (60), ce ne corrono sempre 25, ma il club di Agnelli riceve il 42% in più rispetto ai Blucerchiati e il 135% in più rispetto al Frosinone. Ecco che, così, il divario cresce sempre di più e mentre in Italia i Bianconeri si sono cuciti lo scudetto al petto per nove anni di seguito, negli ultimi dieci anni la Premier ha visto solo una squadra conquistare due primi posti di fila: il Manchester City di Guardiola nei campionati 2017-18 e 2018-19. Quale campionato guardereste più volentieri, uno già scritto o uno che lascia spazio alla competizione tra le sue migliori squadre?
Perché allora, mi si chiede, ben sei squadre inglesi vogliono aderire alla Superlega? La risposta mi sembra semplice: se ti offrono un sacco di soldi, li accetti. È business. Così anche la Premier diventerà un campionato riservato a sei squadre, con buona pace di Jamie Vardy e compagni. Una risposta confortante arriva però proprio da Oltremanica: i tifosi dei club coinvolti nella Superlega hanno già iniziato a protestare per la scelta presa dalle rispettive proprietà e anche una bandiera storica dello United, Gary Neville, ha definito l’idea “disgustosa”, chiedendo di far retrocedere i club che hanno aderito, compresi i suoi Red Devils.
I tifosi pronti a sottoscrivere un nuovo abbonamento tv che mandi in onda la Superlega (o le partite di un campionato italiano che avrebbe poco da dire) devono quindi farsi una domanda: siamo disposti a pagare per il campionato dell’autoproclamata élite del calcio?