Prima avevano più tatto. Anche al tempo del mitico Gianni la famiglia Agnelli si faceva i propri comodi alla grande, addebitando le ricorrenti crisi della Fiat al povero Pantalone (il pubblico denaro); preposto a finanziare le incommensurabili cappelle imprenditoriali del monarca di Torino con la cassa integrazione o altre forme di finanziamento a fondo perduto, a mo’ di Benemerita: uso a obbedir tacendo. E se l’italiano più glamour e blasé – per fare cassa – dava in pegno al tiranno da operetta Mu’ammar Gheddafi un pezzo di impresa italiana, il coro osannante era pronto a giustificare la messa all’incanto dell’argenteria di famiglia, accreditandola da operazione di straordinario respiro internazionale.

Del resto era sempre stato così anche per i precedenti signori dell’automobile sabauda: il proconsole Vittorio Valletta, che imponeva al Paese la politica dei trasporti del secondo dopoguerra basata sulle autostrade, dove far circolare nugoli di utilitarie prodotte dalla Casa; mandando in malora le infrastrutture pubbliche a cominciare dalle ferrovie, i cui treni continuavano a viaggiare su binari che nella migliore delle ipotesi risalivano all’anteguerra. Quella del primo conflitto mondiale.

E se – andando a ritroso – un’indagine della Questura torinese, tra il 1908 e il 1912, metteva sotto accusa il Giovanni Agnelli senior per aggiotaggio e truffa, le modalità con cui si era impadronito della proprietà Fiat, costui venne assolto a seguito dell’intervento dell’allora ministro della Giustizia Vittorio Emanuele Orlando. Lo stesso Orlando che presiederà il collegio difensivo nell’ormai scontato processo d’appello. Come ci ha raccontato anni fa il giornalista Massimo Mucchetti, in un saggio dal titolo che è tutto un programma: Licenziare i padroni?

Dunque, una bella sfilza di furbate e spregiudicatezza, sempre sul filo dell’indecenza (per non dire di peggio). Però, avvolte in un’aura di charme alto borghese e di gné-gné torinese. Quella benevola condiscendenza da Dama della San Vincenzo nei confronti di quei poveracci dei propri assistiti; lusingati dal fatto di poter essere menati per il naso da cotanta signorilità. A riprova che nel Dna nazionale la componente servile è tutt’altro che trascurabile.

L’obnubilamento permanente, per cui l’espatrio del Gruppo gestito dal signore della guerra Sergio Marchionne – danno incalcolabile per il sistema industriale nazionale – è stato metabolizzato come un formidabile successo del made in Italy. Anche se la mossa era soltanto un modo per non pagare tasse a uno Stato che – come dicono a Roma – aveva portato all’azienda perfino “l’acqua con le orecchie”; e assicurato dividendi faraonici al parentado agnelliano. Di più: anche se l’operazione serviva per la vendita miliardaria dell’azienda alla Peugeot. I cui disastri economici e sociali saranno più evidenti quando incominceranno i prevedibili licenziamenti nei siti produttivi italiani.

Ma qui siamo arrivati all’ultima generazione – quella Agnelli-Elkann – che alla congenita avidità dei loro maggiori aggiunge la totale perdita dello stile che – in qualche misura – mimetizzava lo scippo. La protervia deliberatamente ostentata del John Elkann che fa incetta di testate giornalistiche nel contenitore Gedi, palese scudo protettivo quando si paleseranno gli effetti in ambito occupazionale dell’operazione Peugeot, e impone l’omaggio vassallatico ai giornalisti che non se ne vanno sbattendo la porta (il regolamento che obbliga ad allinearsi agli interessi della proprietà); e le testate non in linea vanno tagliate. Come nel tentativo andato a male di cancellare MicroMega.

La stessa tracotanza avida del tentativo di Andrea Agnelli e “la sporca dozzina!”, intenti a creare quella Superlega che cristallizzerebbe per sempre le attuali gerarchie calcistiche, a prescindere dai meriti e dai risultati, e dirotterebbe il malloppo sportivo nelle tasche di pochi privilegiati, impoverendo tutti gli altri club. Anche se non è detto che questi colpi di mano andranno a buon fine. Comunque, resta il fatto che sempre di più l’arroganza del potere ha il volto dei cugini John e Andrea.

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