La vicenda di Malika Chalhy, la ventiduenne di Castelfiorentino cacciata di casa perché lesbica, avrebbe potuto aprire quel varco critico nell’opinione pubblica attraverso il quale prendere coscienza di un sentire molto diffuso e completamente trasversale in termini di censo e di credo religioso: le famiglie che accettano l’omosessualità dei figli senza barcollare sono poche. Pochissime. Purtroppo la piega mediatica ha portato ad una spettacolarizzazione della questione cercando di ridurla ad un conflitto tra religioni, il che non aiuta una seria riflessione. Dio non c’entra con la nostra sessualità, se non nella misura in cui noi proiettiamo su di lui le nostre paure, le nostre fobie e i nostri inconfessabili desideri di normalizzazione.

Mi sono trovato a respingere fermamente alcune richieste di “terapia riparativa” provenienti sia da coppie cattoliche che hanno figli omosessuali, sia da genitori che venerano Allah, così come da famiglie laiche prive di preconcetti confessionali. Esiste purtroppo una netta discrasia tra la narrazione che descrive un paese che si sforza di essere all’avanguardia nell’accettare la sessualità nelle sue diverse manifestazioni, ed un rigido ed incrostato retroterra culturale che accoglie con diffidenza quello che, con una errata traduzione, viene chiamato “coming out”.

I genitori, che lo si voglia ammettere o meno, portano in studio una disagio personale, una sorta di sensazione di “fallimento procreativo”, la convinzione di avere un figlio che presenta aspetti di disfunzionalità. Ed è sulla fallacità di queste convinzioni che è necessario agire. Le reazioni nel chiuso di uno studio vanno da un estremo di incapacità nel farsi una ragione delle sofferte parole dei figli, passando per la negazione sino ad arrivare al rifiuto violento, come nel caso di Malika. Diversi nuclei familiari allontanano la questione derubricando il tutto ad una sorta di fase passeggera che, nel tempo, si risolverà.

“Dottore, avremo forse sbagliato qualcosa nel crescerlo?”, “No, non avete sbagliato proprio nulla”. La paura, l’inquietudine e lo spaesamento sono un comune denominatore che chi fa il mio mestiere deve accogliere mostrando da subito rigidità e fermezza estrema verso la richiesta di “terapie tese a riorientare la sessualità”, mettendo al contempo in guardia questi genitori dal frequentare chi proclami di metterle in atto. L’aberrante follia etica ed ideologica alla base della pratica di chi teorizza una “guarigione” dall’omosessualità va stigmatizzata utilizzando ogni energia possibile.

Le situazioni più gravi sono quelle ove non c’è spazio per l’incertezza, la messa in discussione, la capacità di accettare un elemento per il quale non si era preparati. In tali casi l’omosessualità costituisce un elemento non simbolizzabile, non trattabile: essere gay è sinonimo di malattia sic et simpliciter. “Questo disordine, dottore, non va bene!”, “Ai miei tempi se lo avessi confessato a casa, quante sberle avrei preso. Forse non gliene ho date abbastanza”, “Da dove vengo io questo mi porta disonore, può aiutarci, dottore?”. Frasi provenienti da un humus cupo, reazionario e timoroso, lo stesso che in rete si vanta ed esibisce lo sbeffeggiamento della diversità, che in classe porta la disperazione del ragazzo o ragazza presi di mira sino al suicidio.

Un nefasto arsenale ideologico che esalta un sistema educativo fatto di botte e colpi in faccia portato come fulgido esempio di “raddrizzamento morale”. Purtroppo oggi è forte una tendenza confessionale che pare essersi impadronita di un certo modo di declinare la psicoterapia e la psicoanalisi, affiggendo in un luogo che dovrebbe essere rigorosamente laico simboli religiosi verso i quali molte famiglie si rivolgono, sperando di incontrare nel clinico che manifesta dichiaratamente il loro stesso credo, qualcuno che si allei con loro per la cacciata del “peccato” dalla mente del figlio.

Freud, con tutti i limiti di una concettualizzazione in fieri che stava prendendo la forma della teoria psicoanalitica, pur contemplando la possibilità di un “recupero” oggi impensabile, era tuttavia in grado di scrivere: “Cara signora, 
deduco dalla sua lettera che suo figlio è omosessuale. Sono molto colpito dal fatto che non usi mai questo termine nel darmi le informazioni su di lui. Posso chiedere perché lo evita? L’omosessualità non è certo un vantaggio, ma non c’è nulla di cui vergognarsi, non è un vizio, non è degradante; non può essere classificata come una malattia’ […] È una grande ingiustizia perseguitare l’omosessualità come un crimine e anche una crudeltà”.

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