È l’11 agosto 1944 nel campo di concentramento di Gusen I, sottocampo di Mauthausen. Carlo ha 35 anni ed è originario di Montelupo Fiorentino. È magro, disidratato, affamato e sfinito da turni estenuanti di lavoro. Non è l’unico in quello stato. Intorno a lui tanti sono nelle sue stesse condizioni. Nel freddo, con la neve e sul ghiaccio Carlo è stato costretto per mesi a portare pesanti sacchi di pietre attraverso un percorso denominato “la scala della morte“. Le condizioni igieniche poi sono insostenibili, tra cadaveri in putrefazione, fango, pulci e ratti. Come molti altri prigionieri del campo si è ammalato di dissenteria ed è stato portato nel lazzaretto. In quella giornata di agosto Carlo è in fin di vita. Sta morendo lentamente tra mille sofferenze. E pensare che lui in quel posto non doveva nemmeno esserci.
Quando, la notte tra il 7 e l’8 marzo 1944, i carabinieri e i fascisti di Montelupo Fiorentino avevano bussato alla sua porta alle quattro e mezzo del mattino, erano venuti per prelevare il padre David. Questi però era allettato a causa dell’influenza e così si era offerto lui. La convinzione che dietro a quella incursione mattutina ci fosse un controllo di routine in caserma era concreta. Pochi minuti e sarebbe tornato a casa. La famiglia di Carlo – e in particolare il padre – era notoriamente antifascista ma nessuno di loro pensava a un’azione di rastrellamento in reazione allo sciopero generale, indetto dal Comitato di Liberazione Nazionale solo pochi giorni prima, il 3 e il 4 marzo. Nessuno pensava a quelle 92 persone caricate sui camion in direzione di Firenze. Nessuno pensava al binario 6 (quello dei carri bestiame) della stazione di Santa Maria Novella di Firenze e a quel treno piombato. Nessuno pensava a Mauthausen.
Per chi lo ha deportato Carlo non ha niente di speciale. È uno come tanti. Un altro “materiale umano” proveniente da una realtà socialista che bisogna sfruttare fino allo sfinimento, o alla morte. Ma quel ragazzo non è un internato qualsiasi. È stato un ottimo giocatore di calcio e un punto di riferimento sportivo per un’intera realtà città. Uno di cui, 15 anni prima, si sentiva molto parlare. Carlo di cognome fa Castellani.
Carlo Castellani è nato il 15 gennaio 1909 a Fibbiana, frazione di Montelupo Fiorentino. Venti chilometri a ovest di Firenze. Una terra profondamente contadina, dove a inizio Novecento l’analfabetismo la fa ancora da padrona. I Castellani sono però una delle poche famiglie benestanti della zona. Il padre possiede una segheria e questo consente al giovane Carlo di potersi dedicare alla scuola (frequenta l’istituto dei Padri Scolopi) e alla propria passione, il calcio. Nella provincia empolese il pallone non è ancora lo sport di riferimento. Il ciclismo è di gran lunga più popolare. In più ci sono discipline molto caratteristiche e folkloristiche come il “tamburello” e il “pallone col bracciale” che hanno un notevole seguito. Non è un caso se la città di Empoli non ha ancora una propria squadra. Bisogna aspettare il 1920 per vedere la nascita dell’Empoli FC, dalla fusione del Football Empoli e dell’Unione sportiva empolese.
Quella nuova realtà calcistica, così vicina a casa, è un richiamo fortissimo. Non ci sono né grandi ambizioni né molti soldi. C’è però tanta voglia di crescere e molto entusiasmo. Castellani inizia a giocarci nel 1926. Ha 17 anni ma è già il giocatore più forte della rosa. Capace di segnare reti a ripetizione e con estrema semplicità. Nella sua prima stagione segna 16 reti, portando l’Empoli dalla terza alla seconda divisione nazionale. L’anno successivo il rendimento di Castellani migliora ulteriormente. Ventidue reti in 22 partite. Di queste 5 arrivano addirittura in un’unica gara. È il 6 gennaio 1929 e la vittima è il modesto San Giorgio Pistoia. L’Empoli ottiene un nuova promozione, salendo in prima divisione, equivalente alla terza divisione nazionale.
Castellani ha venti anni, una tecnica notevole, una grande intelligenza tattica e il suo nome comincia a circolare anche negli ambienti della serie A. È il Livorno la prima a mettere gli occhi addosso al giovane talento di Fibbiano. I labronici all’inizio degli anni Trenta sono una delle squadre più prestigiose del Paese. Sono allenati dal tecnico ungherese Wilhelm Rady e dieci anni prima sono stati anche vice-campioni d’Italia. Nel 1930/31 gli amaranto non sono però una grande squadra. Retrocedono e Castellani mette a segno appena tre reti. L’impatto con la serie A non è stato dei migliori. Nel 1933 passa al Viareggio ma anche qui non riesce ad imporsi. Una rete e tredici partite dopo Castellani decide di tornare lì dove tutto era cominciato, ad Empoli. È l’estate del 1934. Il club – in pieno stile fascista – ha cambiato denominazione in “Dopolavoro empolese” e veste maglie blu e grigie. Qui, in un ambiente che lo ha visto crescere e lo ha lanciato, Castellani ritrova la brillantezza e la vecchia capacità realizzativa. In cinque stagione Castellani segna a ripetizione, portando il suo personale score a quota 61 reti. Per oltre 70 anni è stato il recordman di reti con la casacca dell’Empoli. A strappargli il primato ci ha pensato Francesco Tavano nel 2011. L’unico rammarico è non essere riuscito a trascinare il suo Empoli fino alla A. Il piccolo club toscano dovrà attendere fino alla stagione 1986/87 per la sua prima partecipazione in massima serie.
Carlo Castellani lascia il calcio a 31 anni. Nel 1940 non c’è più tempo per pensare allo sport. Benito Mussolini, con la dichiarazione di guerra del 10 giugno, ha costretto gli italiani a ripensare le loro priorità quotidiane. Il discorso del Duce dal balcone di Palazzo Venezia è l’evento che porta Carlo in quel campo di concentramento. A quella condizione di orrore e disperazione. A quella morte prematura e sofferta. Una morte oggi ricordata attraverso l’intitolazione di due stadi: quello di Empoli e quello di Montelupo Fiorentino. Gli unici che hanno preso il nome di un martire del nazifascismo.