I saldi delle 6 missioni in cui è diviso il piano si discostano pochissimo da quelli di gennaio. Solo la voce Inclusione e coesione scende sensibilmente, ma non vengono contate le risorse del fondo React Eu per il lavoro. Irrisolte quelle che per Renzi erano le grandi pecche del "vecchio" Pnrr, dall'eccesso di progetti alla governance. Per quanto riguarda le riforme che accompagneranno il piano, l'unica novità è l'annuncio di un ddl per promuovere la concorrenza
C’è poco di nuovo nel tanto atteso Recovery plan firmato da Mario Draghi, finanziato con 191,5 miliardi di risorse europee più 30 miliardi presi a prestito sul mercato. Il “piano verde“, come l’ha definito qualcuno, è verde esattamente quanto quello inviato al Parlamento da Giuseppe Conte lo scorso gennaio. È giusto un po’ più digitale e certo non molto più amico della ricerca, come hanno fatto notare su Twitter gli scienziati che avevano promosso il piano Amaldi. Quanto all’eccesso di progetti senza una visione di fondo, che per Matteo Renzi era una delle gravi pecche del “vecchio” Pnrr, non si può dire che il problema sia superato: le tabelle preparate dal Tesoro elencano ancora ben 135 progetti di investimento. Per non dire governance, sulla carta l’innesco della crisi di governo (il coordinamento sarà al Mef e la supervisione politica accentrata a palazzo Chigi, in mano a un comitato in cui siederanno solo i ministri competenti) e della necessità di dar voce al Parlamento, a cui il premier riferirà lunedì e martedì a poche ore dall’invio del testo a Bruxelles.
Stando alle 319 pagine di bozze in circolazione venerdì – quando era atteso un primo cdm sul testo, rinviato invece a sabato mattina – i saldi delle 6 “missioni” in cui è diviso si discostano pochissimo da quelli del piano di gennaio. L’unica grande voce che salta è il cashback, che però stando a indiscrezioni non è destinato a saltare: potrà comunque essere coperto con fondi nazionali. Per il superbonus 110% nel complesso i soldi a disposizione restano gli stessi previsti dal precedente governo (oltre 18 miliardi di cui 10,26 di risorse Ue e 8,2 nazionali) che non bastano però per l’estensione fino a fine 2023. Restano identiche, poi, le cosiddette priorità trasversali: parità di genere, opportunità per i giovani e sviluppo del Sud.
Che cosa cambia, insomma? L’equilibrio interno si sposta a favore dei finanziamenti “aggiuntivi“, cioè di progetti nuovi, rispetto a quelli “sostitutivi” (tra cui quello del cashback). E’ questo che aumenta – di poco – l’impatto atteso sul pil: nel 2026, a fine piano, il prodotto interno lordo italiano dovrebbe essere più alto di 3,6 punti percentuali rispetto allo scenario senza Recovery, contro i 3 punti stimati dal Tesoro a gennaio. La differenza vale circa 10 miliardi su un pil di 1.800, la cifra su cui era assestato prima del crollo causato dal Covid.
Il confronto: risorse quasi invariate. Con il React Eu più fondi a lavoro e coesione – Il confronto dei numeri non è immediato perché a gennaio le tabelle del governo incorporavano i soldi del Recovery in senso stretto (all’epoca stimati in 196 miliardi), i 13 miliardi del React Eu e 20 miliardi di fondi di sviluppo e coesione: sommandoli si arrivava a 222,9 miliardi. Ora invece lo schema preparato per i ministri comprende la prima voce (aggiornata però dalla Commissione Ue a 191,5 miliardi) più 30 miliardi di fondo complementare nazionale finanziato in deficit. Manca il dettaglio sulla ripartizione del React Eu, il cui piano di spesa è già stato inviato a Bruxelles dalla ministra del Sud Mara Carfagna all’inizio di aprile. Senza quel fondo comunque il “nuovo” piano arriva a 221,5 miliardi, cifra molto vicina al totale del “vecchio” piano. Affiancando i due schemi si può quindi farsi un’idea dei cambiamenti fatti, visto che i nomi delle sei missioni restano identici.
A Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura vanno 48,6 miliardi contro i 46,1 di gennaio, alla Rivoluzione verde e transizione ecologica 68,6 miliardi contro 68,9, alle Infrastrutture per una mobilità sostenibile 31,4 miliardi dai 31,9 del piano precedente, a Istruzione e ricerca 31,9, in lieve aumento dai 28,4 precedenti, e alla Salute 19,7 miliardi – suddivisi tra assistenza territoriale, digitalizzazione e riqualificazione degli ospedali – esattamente come nella versione di tre mesi fa. Solo la macro area Inclusione e coesione scende sensibilmente, a 22,3 miliardi contro i 27,62 precedenti. Ma lì dentro ci sono le politiche per il lavoro e la coesione territoriale, che riceveranno gran parte dei fondi del React Eu: 4 miliardi per esempio andranno alla decontribuzione al Sud, 1,5 miliardi al fondo nuove competenze, quasi 500 milioni ai bonus per chi assume donne o giovani. La cifra finale sarà dunque anche superiore a quanto previsto in gennaio.
Aumentano i soldi per la banda larga, non per asili e ricerca di base – In attesa del testo completo, che lunedì e martedì sarà presentato alle Camere, è possibile scendere un po’ più nel dettaglio guardando alle singole voci elencate nella maxi tabella con gli investimenti. Anche in questo caso si scopre che sui temi caldi le variazioni sono spesso impercettibili: lo stanziamento per asili nido e servizi di cura per la prima infanzia, cruciali anche per la parità di genere nel mondo del lavoro, resta per esempio a 4,6 miliardi e si prevede di creare 228.000 nuovi posti contro i 622.500 che erano l’obiettivo messo nero su bianco a gennaio. La dote del piano Transizione 4.0 cala un po’, da 18,9 a 18,4 miliardi, e il potenziamento dei fondi per la ricerca di cui si parla in queste ore è molto relativo, come hanno fatto notare su Twitter gli scienziati che avevano promosso il piano Amaldi da 15 miliardi in cinque anni. La voce “Dalla ricerca all’impresa” sale da 11,7 a 12,4 miliardi grazie a un incremento delle risorse per il Programma nazionale di ricerca, ma per i progetti dei giovani ricercatori non si va oltre i 600 milioni e per i partenariati su progetti di ricerca di base ci sono 1,6 miliardi come a gennaio. A essere potenziato è invece il piano per la banda larga e il 5G caro al ministro Vittorio Colao, che incassa 5,3 miliardi a valere sul Recovery e 1,4 di fondi nazionali, a fronte dei 4,2 miliardi della vecchia versione.
Quanto alla sanità, la cifra complessiva a disposizione resta come visto invariata anche se cambia notevolmente il peso dei singoli progetti: si dimezzano da 4 a 2 miliardi i fondi per le nuove case della comunità (saranno 1.288 e non 4.800 come previsto a gennaio) mentre salgono da 1 a 4 miliardi gli investimenti nell’assistenza domiciliare e telemedicina. Nell’ottica, evidentemente, di privilegiare le cure a domicilio rispetto al pur virtuoso modello degli ambulatori che offrono servizi socio-sanitari di prossimità. Ma la novità sarà anche gradita alle aziende che si occupano di domotica e sanità digitale.
Le riforme: nuova solo la concorrenza – Per quanto riguarda le riforme che accompagneranno il piano, l’unica novità è l’annuncio di un ddl per promuovere la concorrenza, tema su cui Draghi aveva chiesto spunti all’Antitrust. Che ha consigliato tra l’altro di sospendere temporaneamente il Codice appalti. Il piano di gennaio si limitava invece ad annunciare la riforma delle concessioni statali, tra cui quelle delle autostrade. Gli altri interventi strutturali, su pubblica amministrazione, giustizia e semplificazione legislativa, erano invece già previsti. Sul primo fronte i cardini sono lo snellimento delle procedure di selezione, il miglioramento delle competenze e la digitalizzazione (niente di nuovo), accompagnati dallo stop agli adempimenti non necessari e da un disboscamento delle procedure non necessarie. Ci sono poi altre mini riforme di settore, da quella della proprietà industriale all’alta formazione resa obbligatoria per dirigenti scolastici, docenti e personale tecnico-amministrativo. E quella, attesa da anni, delle politiche attive del lavoro. Senza la quale sarà impossibile affrontare le ricadute occupazionali della crisi pandemica.