Nel marzo del 2004 mio fratello Michele, malato terminale di leucemia, si suicidò gettandosi dal quarto piano della sua casa a Roma. Avrebbe voluto l’eutanasia, ma nessuno dei medici che conosceva accettò di aiutarlo. Ormai era rassegnato ad attendere i pochi giorni che lo separavano dalla fine. Ma una notte ebbe un episodio di incontinenza e la sua badante dovette portarlo in bagno, lavarlo, mettergli un pannolone e riportarlo al letto.
Michele era uno scapolo di 72 anni, molto riservato e attento alla sua dignità personale. Non sopportò questa umiliazione – e quelle che certamente sarebbero venute – e scelse di farla finita. Si trascinò fino al terrazzo e si gettò dal quarto piano. Immaginate il dramma dell’altro mio fratello che giunse sul luogo prima di me perché abitava molto vicino a Michele e dovette procedere al riconoscimento del cadavere sfigurato.
Decisi di rendere nota la vicenda di Michele e di costruire su questo una campagna in favore della eutanasia. Lo potei fare in modo abbastanza clamoroso grazie a Corrado Augias, che pubblicò a tutta pagina la lettera in cui raccontavo il dramma di Michele, con un suo sentito commento. E per giorni la sua rubrica delle lettere ospitò gli interventi di lettori che narravano vicende analoghe a quella di Michele e chiedevano alla politica di legalizzare l’eutanasia. Subito dopo – grazie alla amicizia con Alberto Zuliani, già presidente dell’Istat – scoprii che l’Istituto pubblicava ogni anno una tabella sui suicidi dettagliatissima: il numero totale, il sesso, l’età e i “moventi”. E seppi che su un totale di circa tremila suicidi, mille avevano come “movente” le malattie fisiche o psichiche.
Sarebbe di troppo facile effetto grandguignol fornire particolari su un’altra tabella Istat, quella relativa ai “mezzi di esecuzione”, in cui i tra i più comuni vi sono l’impiccagione o altri “mezzi” non meno atroci. Come sarebbe poco “scientifico” ricordare ciò che ognuno di noi ha avuto modo di apprendere, anche se non può naturalmente documentarlo: che molti vecchi gravemente malati e sofferenti hanno deciso, in una sera di più acuta angoscia, di ingerire l’intero contenuto del flacone di sonnifero, anziché le dieci gocce prescritte; e la mattina dopo il medico, da anni amico della famiglia – anche per evitare quel tanto di “riprovazione sociale” che ancora circonda i congiunti di un suicida – ha indicato nel certificato di morte una delle cause naturali che in età avanzata pongono silenziosamente fine all’esistenza.
Su questo dato impostai – nell’ambito della Associazione Luca Coscioni – una intensa campagna di stampa, trovando il sostegno dei congiunti di tre “suicidi illustri” (Luciana Castellina per Lucio Magri, Chiara Rapaccini, compagna di Mario Monicelli, e i figli di Carlo Lizzani, Francesco e Flaminia). Con loro scrissi, nel decennale del suicidio di mio fratello, una lettera aperta al Presidente Napolitano, che ci rispose pubblicamente esortando il Parlamento a discutere il tema del fine vita. Purtroppo, dopo tanti anni, il Parlamento non riesce – o meglio, “non intende” – portare avanti la legge di iniziativa popolare depositata dalla Associazione Coscioni nel 2013 con 76mila firme di cittadini-elettori, che da allora sono più che raddoppiate.
Negli anni successivi l’Istat – non so dire se “motu proprio” o anche su sollecitazioni politiche – cessò di colpo di pubblicare la tabella con i dati sui suicidi. Solo dopo una lunga battaglia, e anche grazie ad un Presidente aperto come Giorgio Alleva, l’Istituto ricominciò a pubblicare la tabella, da cui però risultava un numero di suicidi per malattia molto più limitato, perché l’Istat aveva ritenuto più corretto attingere i dati non più dalla fonte “giudiziaria” (in pratica, i poliziotti o i carabinieri che per primi accorrevano sui luoghi dei suicidi e si informavano sulle loro motivazioni) ma dalla fonte “sanitaria” (ospedali e medici chiamati ad esaminare i corpi dei suicidi e a relazionare su di essi).
A seguito di questi nuovi criteri, il dirigente dell’Istat cui di recente ho chiesto notizie mi ha risposto così: “I suicidi, nel 2018, sono stati 3.820 dei quali il 6,5% (249) sono suicidi di persone con almeno una malattia fisica”. Resta quindi da conoscere il numero dei suicidi legati a malattie psichiche, ma è presumibile che anche sommando questo numero ai 249 citati il totale sarebbe di molto inferiore ai circa mille che per anni l’Istat ha catalogato come suicidi per malattie.
E’ un tema su cui dovrebbe essere interesse comune fare chiarezza, perché più è alto il numero dei suicidi per malattia più appare auspicabile consentire a tutti, grazie alla eutanasia, una “morte opportuna”, per riprendere la efficace definizione di Piergiorgio Welby. D’altra parte, appare poco verosimile che in pochi anni, in Italia, i suicidi per malattia siano passati da mille a poche centinaia. Sarebbe una bella notizia, ma purtroppo non appare verosimile.