Musica

È morta Milva, se ne è andata a 82 anni la “rossa” della canzone italiana. Un’artista a tutto tondo dalla voce inconfondibile

Una vita sofferta e complessa quella di Milva. Cantante, attrice, interprete donna dell’impegno su un palco teatrale, tra le strofe di un tango o di un’opera lirica, di un verso poetico o di una melodia pop, una “rossa” simbolica e autentica del Novecento che va a spegnersi anche nella memoria di chi c’era

Scegliete voi la Milva che avete amato di più. Quella più intensa, politica e brechtiana dell’Opera da tre soldi, quella che canta Lili Marlen con una grinta da incrinare i cristalli, quella che afferra Milord della Piaf e la trasforma in una performance teatrale palpitante. Maria Ilva Biolcati, in arte Milva, è morta ad 82 anni nella sua casa di Milano, dopo una malattia che le aveva fatto perdere progressivamente l’uso delle gambe e la memoria. Quasi cento album, dalle balere al Piccolo i Milano, dal pop alle collaborazioni con Astor Piazzolla e i Vangelis, un’artista a tutto tondo, che non si è mai scritta un brano. Internazionale la Milva da Goro, paesino ferrarese fluttuante sulla parte meridionale del Delta del Po. Gli anni quaranta dell’infanzia giocosa nella bassa complicata però dai problemi economici del padre. Poi il trasferimento a Bologna, in via Bigari da una cugina, nel quartiere popolare della Bolognina.

Poca scuola per Milva e subito una carriera da interprete imbeccata da un impresario di balere, Savino’s, che tra le tante procaci fanciulle del suo catalogo, vede la ancora adolescente Maria Ilva da vestire alla esistenzialista con “pantaloni neri di velluto, maglioncino nero, fascia in vita e foulard al collo”. Il nome d’arte Milva, a cui seguirà il soprannome “la Pantera di Goro” (c’era anche l’aquila di Ligonchio, per dire, ovvero la Zanicchi) per i suoi capelli rosso quasi bordeaux, nascerà solo nel 1960 quando parteciperà al Festival di Sanremo di diritto dopo aver vinto un concorso per voci nuove (si narra ci fossero oltre settemila concorrenti) della Rai. Tra l’altro non salterà un anno fino al 1969 presentandosi regolarmente in gara a Sanremo (alla fine in totale saranno 14 partecipazioni, record a dividere con Toto Cutugno e Peppino di Capri) e arrivando terza per ben due volte (1968, 1969) prima duettando con Celentano in Canzone di Don Backy e poi l’anno successivo proprio con Don Backy in Un sorriso.

La voce di Milva ha un timbro inconfondibile, una sorta di miscela tra antico e moderno, tra una Pizzi e una Mina, una gamma di tonalità che prevedono, o almeno è quello che ci vede un pigmalione di qualità come Giorgio Strehler, anche passaggi di parlato recitati di raro e incantevole magnetismo. L’incontro avviene già a metà anni sessanta al Piccolo di Milano e Milva si dedicherà subito ad una nuova straordinaria carriera “impegnata” dedicandosi prima all’interpretazione dei canti della Resistenza e poi ai testi di Bertold Brecht musicati, diventando protagonista di una originale drammaturgia su L’opera da tre soldi – testo di profonda ribellione anticapitalista – che le farà fin dai primi anni settanta varcare con successo i confini italiani in ogni teatro del mondo, perfino in Giappone. “Posso dire con sicurezza – spiegò la cantante ferrarese in un’intervista nei primi anni duemila – “che se oggi, dopo oltre 40 anni di carriera, sono ancora qui, e sono ciò che sono, è grazie a lui. Il cento per cento di quello che so, l’ho imparato da Strehler. È riuscito a tirar fuori da me il meglio, senza mai impormi nulla. La sua grandezza era la sua umiltà”. Se ci fosse Paolo Limiti, amico e conoscitore profondo della vita di Milva, potrebbe raccontarci la fiera e dignitosa necessità della ragazza di emanciparsi culturalmente e politicamente, colmare il vuoto di una scuola non fatta da ragazza, assorbire l’humus politico dell’arte e della canzone come impegno contro le diseguaglianze sociali ed economiche. E sarà questo il percorso artistico che la caratterizzerà tra gli anni settanta e ottanta, apice di una carriera straordinaria, acclamata ovunque nei teatri. “Già negli anni Sessanta, quando ero all’apice della notorietà grazie ai vari Sanremo, feci un patto con la Ricordi, la mia casa discografica, per essere libera da impegni dopo il Festival, in modo da potermi dedicare a ciò che mi piaceva, a ciò che davvero mi faceva crescere”.

Quindi spazio a Brecht, Kurt Weill, Astor Piazzolla, Luciano Berio. Poi ancora più verso la fine del novecento Franco Battiato, Mikis Theodorakis, Alda Merini. O ancora nel 1972 l’album con Ennio Morricone. Disco che sta in mezzo a La filanda e altre storie (dove canta Bella ciao e La filanda) e Sognavo, amore mio (pezzo da novanta del repertorio della Pantera di Goro in collaborazione con Francis Lai, il compositore francese di origine sarda premio Oscar per la colonna sonora di Love Story). L’album con il compositore laziale – Dedicato a Milva da Ennio Morricone – è un gioiello di rara finezza interpretativa dove Milva si esibisce in brani tratti da film musicati dal maestro tra cui D’amore si muore dove la tensione della voce della cantante si fonde con le oscillazioni perentorie della tensione delle partiture per archi di Morricone. Milva, come Strehler, era impegnata politicamente ed era socialista. Socialista dell’era pre craxiana, quella dei Nenni e dei Pertini. Milva la Rossa sì, ma non proprio rossissima. Eppure ammiratrice di Enrico Berlinguer tanto che dichiarò: “L’avvento di Craxi ha portato alla distruzione del partito socialista e tutti noi che eravamo socialisti, ad esempio Strehler, abbiamo deciso di votare Pci”.

Quando ancora in pochi la chiamavano Milva, ed era ancora Maria Ilva, si sposò con il discografico Maurizio Corgnati, da cui ebbe la figlia Martina. L’incontro a Torino alla fine degli anni cinquanta è la storia dell’Italia che rinasce, del popolo che si rialza e torna ad essere artefice del suo destino. Spiegava Milva proprio a Paolo Limiti che si trovava in via Bertola nel capoluogo piemontese sede della Fonit Cetra. “Altri tempi. Si incideva ogni dieci giorni per un singolo. E io stavo registrando un brano che mi pare si intitolasse Flamenco Rock”. Lei 20enne, cupa, impaurita, determinata. Lui 43enne, uomo di cultura, navigato. Lei si abbevera al suo sapere. Sei mesi e lo sposa. Ma la musica si spegne perché Milva si innamora follemente nel 1969 di Domenico Surighetti, in arte Mario Piave. Molla tutto, ma poi nel tempo se ne è pentita.

“Provai una forte attrazione per un mio coetaneo ma fu una cavolata”. Anche qui alti e bassi per quattro anni e la separazione. Il nuovo uomo duraturo per Milva è il filosofo Mario Gallerani. Quindici anni insieme. Una relazione che ricalca un po’ quella con Corgnati, ma il colpo di scena questa volta arriva al contrario. Nel 1989 è Gallerani a lasciare Milva per una ragazza più giovane. Si apre così la voragine della crisi psicologica della cantante. Un lutto, un dolore insanabile, con il desiderio perfino di farla finita. Istinto di morte che passa nel legame con Flavio Pistilli, interprete di tanti spaghetti western con Leone, Baldi, Petroni, attore di Scavolini, Petri e Lizzani, ma soprattutto interprete massimo dei testi di Brecht. I due si amano, vivono intensamente i primi anni novanta da cinquantenni maturi, ma Pistilli, sofferente di depressione, che aveva lasciato la moglie per Milva, nel 1996 si suicida.

Una vita sofferta e complessa quella di Milva. Cantante, attrice, interprete donna dell’impegno su un palco teatrale, tra le strofe di un tango o di un’opera lirica, di un verso poetico o di una melodia pop, una “rossa” simbolica e autentica del Novecento che va a spegnersi anche nella memoria di chi c’era. Addio Milva. Pantera sì, ma più che di Goro per graffiare e sbranare la vita. Una vita che altrimenti sfugge, passa senza accorgersene, lasciando l’idea di non aver vissuto.