Nella bozza del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che sta per essere partorito dal Governo Draghi, si parla anche di “Rivoluzione verde e transizione ecologica”. Il futuro del mondo, dell’Unione europea e dell’Italia ha un senso se pensato e progettato con questa chiave. Si tratta di parole che non sono un dettaglio marginale, sono il fulcro di una svolta paragonabile a quella che due secoli fa ha segnato l’esordio della rivoluzione industriale. Quest’ultima ci ha garantito molti vantaggi; tuttavia il suo impatto ambientale nell’arco di 200 anni – un istante, se guardiamo alla storia dell’Homo sapiens, e un millesimo di secondo, se ragioniamo in termini geologici – ha portato l’umanità sull’orlo della catastrofe globale. Non è solo in discussione il benessere di noi privilegiati, è in gioco l’esistenza di tutti.
Quindi mi aspettavo che, nelle 319 pagine del PNRR, una parte consistente dello spazio fosse dedicato alle modalità con cui l’Italia rivoluzionerà ecologicamente il nostro sistema produttivo e sociale e agli interlocutori da coinvolgere in questo processo di cambiamento radicale. In fondo, se il governo ha pure cambiato il nome del Ministero dell’Ambiente in Ministero della Transizione ecologica, ci sarà stato un motivo. Invece no: le pagine dedicate alla “rivoluzione verde” sono soltanto 3 e mezzo (dalla 126 alla 129), meno dell’1%.
All’inizio del paragrafo dedicato alla questione vengono così descritti gli obiettivi generali: “ – Rendere il sistema italiano sostenibile nel lungo termine garantendone la competitività; – Rendere l’Italia resiliente agli inevitabili cambiamenti climatici rafforzando le infrastrutture e la capacità previsionale di fenomeni naturali e dei loro impatti; – Sviluppare una leadership internazionale industriale e tecnologica nelle principali filiere della transizione ecologica; – Assicurare una transizione inclusiva ed equa, massimizzando i livelli occupazionali e contribuendo alla riduzione del divario tra le Regioni; – Aumentare consapevolezza e cultura su sfide e tematiche ambientali e di sostenibilità”.
A metà delle tre paginette c’è scritto che tutto ciò sarà realizzato attraverso quattro componenti: “1. Agricoltura sostenibile ed economia circolare; 2. Transizione energetica e mobilità sostenibile; 3. Efficienza energetica e riqualificazione degli edifici; 4 Tutela del territorio e della risorsa idrica”. Per il resto, si dipinge un quadro della situazione ovvio e prevedibile, degno di una ricerca scolastica fatta su Google.
Per giunta, nello 0,1% di spazio dedicato a quella che dovrebbe essere una svolta epocale, la gente non c’è. Ci sono in compenso il mondo dell’industria, la politica ad alto livello e, last but not least (come direbbero gli inglesi), la burocrazia. Infatti, si legge, “sicuramente, la transizione ecologica non potrà avvenire in assenza di una altrettanto importante e complessa ‘transizione burocratica’, che includerà riforme fondamentali nei processi autorizzativi e nella governance per molti degli interventi delineati”. Tradotto? Boh…
In compenso non viene affatto sviluppato un punto (che ho già citato) scritto all’inizio del paragrafo: “Aumentare consapevolezza e cultura su sfide e tematiche ambientali e di sostenibilità”. Parrebbe un accenno sibillino al fatto che la rivoluzione è una cosa troppo seria per lasciarla fare soltanto a industriali, ministri e burocrati; occorre semmai che partecipi attivamente anche il famoso “popolo italiano”, in nome del quale tutti parlano. Invece su questo fronte all’interno del paragrafo non c’è nulla: zero. Con tanti saluti allo scopo per cui il PNRR è stato scritto: ottenere i miliardi del piano dell’Ue intitolato “Next Generation EU”. Guarda caso, questo è dedicato al futuro della “prossima generazione dell’Unione europea”, mica a chi tira a campare in questi anni; infatti cita proprio la necessità della transizione ecologica.
Dunque la rivoluzione verde italiana verrà fatta a colpi di eventuali decreti, senza coinvolgere i cittadini? Vai a capire… Mi viene da dare ragione a Carlo Petrini, fondatore e presidente internazionale di Slow Food, col quale ho fatto una chiacchierata all’inizio di aprile (chi è curioso, può dare un’occhiata cliccando qui) per conto di una rivista specializzata, SenzaFiltro. Ha detto, in estrema sintesi: “Si parla tanto del Ministero della Transizione ecologica, affidato a un ministro-tecnico. Per ora è soltanto un nome nuovo, scelto per far credere che sapremo spendere i fondi europei destinati alla ripresa dopo la pandemia. Purtroppo dietro, a livello politico, c’è il nulla: mancano del tutto un pensiero, un’elaborazione, qualcosa che vada al di là dell’aria fritta”. Leggendo il PNRR, appena tenuto a battesimo, è difficile dissentire. Secondo Petrini (uno che parla di queste cose da decenni con i potenti del mondo e pure con il Papa), per realizzare quella rivoluzione anche in Italia “occorre una mobilitazione politica, culturale, empatica. Decine di milioni di persone devono cambiare stile di vita. Si deve conciliare la ripresa con le buone pratiche di una società che si trasforma”.
Ecco, cambiare lo stile di vita di 60 milioni di italiani, tanto più dopo l’esperienza terribile della pandemia, significa creare gli strumenti e concepire le pratiche per avviare un rivoluzione verde che parta dal basso, da tutti noi. Una svolta di questa portata non può essere sequestrata dalle alte sfere. Soprattutto, occorre usare argomenti che – dalle scuole dell’infanzia alle università fino al circoli per anziani – creino la consapevolezza della necessità inderogabile della transizione ecologica; spiegando perché, come e con quali tempi (possibilmente brevi). Per ora, tuttavia, il “temino” scritto in quelle tre paginette, e anche ciò che è uscito finora dal neonato Ministero della Transizione ecologica, rivelano un vuoto di idee nel governo e tra i tanti partiti che lo sostengono. Ottimisticamente, mi auguro di essere smentito. Vedremo.