Un altro piccolo passo verso la definizione di salari minimi adeguati in tutta Europa. O meglio verso l’approvazione della direttiva sul tema che nei prossimi mesi le istituzioni di Bruxelles dovranno elaborare, in un percorso che si preannuncia fitto di scontri. La bozza con gli emendamenti presentata in commissione Lavoro al Parlamento europeo da Dennis Radtke, membro tedesco del Partito popolare europeo, e dalla socialdemocratica olandese Agnes Jongerius, modifica in modo significativo la proposta iniziale della Commissione europea. In particolare viene fissato come obiettivo quello di stabilire il 90% dei salari con la contrattazione collettiva e si introducono criteri chiari per valutarne l’equità, con riferimento al 50 per cento del salario medio nazionale.

Ma l’iter legislativo è solo all’inizio: dopo le ulteriori modifiche in commissione e il voto del Parlamento in seduta plenaria, la parola passerà a Commissione e Consiglio dell’Ue. E qui emergeranno tutte le frizioni evidenti anche in questa prima fase: il blocco dei paesi dell’Est, dall’Ungheria alla Polonia fino a Romania e Bulgaria, contrari per ragioni legate al loro basso costo del lavoro che da anni li favorisce nel mercato interno, sta trovando il supporto degli esponenti dei gruppi euroscettici. In prima linea ci sono i Conservatori, guidati da Giorgia Meloni, e i partiti di Identità e Democrazia, gruppo di cui fa parte la Lega, ostinati a non riconoscere margine di manovra all’Europa su questo tema.

Il punto fondamentale della bozza è la definizione di salario minimo, che è da considerare adeguato ed equo quando “migliora la distribuzione dei salari e consente uno stile di vita dignitoso per i lavoratori e le loro famiglie”. Un principio che, si ribadisce, deve essere universale, dato che “nessun lavoratore può essere escluso dalla protezione di un salario minimo”. Attorno a questo perno ruotano diverse novità rispetto alla proposta della Commissione. Intanto viene alzata l’asticella della copertura con la contrattazione collettiva, considerato lo strumento migliore per diminuire la quota dei cosiddetti lavoratori poveri, ovvero coloro che hanno un salario orario inferiore ai due terzi rispetto alla media nazionale. La quota da raggiungere passa dal 70 al 90%, sempre in coerenza con leggi e pratiche nazionali.

Questo è un punto decisivo: con la direttiva l’Unione europea non intende imporre agli Stati membri un salario minimo prestabilito e immutabile né obbliga a seguire un’unica strada per determinarlo. Saranno eventualmente i singoli paesi a definirne la soglia, ma dovranno farlo rispettando un criterio che nella proposta di modifica viene rafforzato: non si può andare sotto al 60% del salario mediano e al 50% di quello medio. La relazione entra anche nello specifico della composizione del salario minimo, stabilendo che non può essere abbassato deducendo i rimborsi per le spese sostenute sul lavoro e che vanno esclusi dal calcolo i pagamenti extra come mance, straordinari o bonus.

“La bozza presenta molti passi avanti rispetto alla prima versione della Commissione europea e rafforza la tutela dei lavoratori più deboli”, spiega Daniela Rondinelli, europarlamentare del Movimento 5 Stelle intervenuta in Commissione. Ma ci sono ancora molti limiti: manca ad esempio il riferimento alla soglia di povertà relativa e l’introduzione di un meccanismo di coordinamento per verificare forme di concorrenza sleale. “Per questo presenteremo tre ulteriori proposte – spiega Rondinelli. “Il salario minimo deve essere al di sopra della soglia della povertà relativa e deve garantire la leale concorrenza nel mercato interno, in modo da poter contrastare il dumping salariale. Inoltre è necessario stabilire che le aziende che non rispettano le norme sulla contrattazione collettiva previste dalla direttiva non possano accedere ai fondi pubblici o europei”.

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