La transizione ecologica ha un solo obiettivo: migliorare la condizione umana. Fino ad ora lo abbiamo fatto attingendo risorse dal resto della natura, come tutti gli altri animali, ma siamo diventati così efficienti da mettere a rischio le risorse che ci sostengono. Le popolazioni dei viventi si rinnovano, con i processi riproduttivi, ma se le consumiamo in quantità superiori rispetto ai tassi di rinnovamento, dopo un po’ le risorse finiscono. L’agricoltura ha inventato sistemi di produzione efficienti, concentrandosi su pochissime specie, sostenute artificialmente con fertilizzanti e mangimi, uccidendone i nemici con i pesticidi e gli antibiotici. Così facendo banalizza l’ambiente.

Dove prosperavano migliaia di specie, a formare ecosistemi complessi, ora ci sono agroecosistemi a bassissima diversità strutturale e funzionale, sostenuti artificialmente. Stiamo logorando la natura. Basta un patogeno un po’ più virulento e corriamo il rischio di perdere tutto, come è avvenuto per gli olivi del Salento. La semplificazione della natura si sta ritorcendo contro di noi e tutti i paesi stanno riconoscendo l’urgenza del problema dell’erosione della biodiversità e del cambiamento climatico, tanto da riconoscere la necessità di inventare modi più sostenibili di rapportarci con l’ambiente.

La sostenibilità si misura attraverso lo stato di biodiversità ed ecosistemi a seguito di nostri eventuali cambiamenti di direzione. Se lo stato della natura migliora, i nostri sforzi hanno successo. Altrimenti ci dobbiamo impegnare di più. Il contributo dell’ecologia consiste proprio nel valutare l’efficacia delle azioni intraprese. La realizzazione di un sistema osservativo simile a quello meteorologico, che ci permetta di valutare lo stato di biodiversità ed ecosistemi, è urgente. È dal 1992 che tutti i paesi del mondo, o quasi, hanno convenuto che la biodiversità sia essenziale per la nostra sopravvivenza. Ma poi non si è fatto quasi nulla. Le Nazioni Unite hanno dedicato proprio alla biodiversità il decennio appena trascorso e ora siamo entrati nel decennio dell’oceano. Se n’è accorto qualcuno?

Il problema è che, come tutte le altre specie, non siamo attrezzati per valutare le conseguenze a lungo termine delle nostre decisioni. Una popolazione di leoni che si insediasse su un’isola di dimensioni limitate ucciderebbe tutte le prede e poi si estinguerebbe per fame. Noi siamo i leoni su quell’isola. Siamo predatori globali e il resto della natura è la nostra preda. I leoni non riuscirebbero a far estinguere la vita, su quell’isola. Resterebbero piccoli animaletti per loro irraggiungibili, e le piante, i batteri, i virus. Dopo l’estinzione dei leoni, annientati dal loro successo nel prendere risorse, quell’isola si riprenderebbe, col tempo evolverebbero altre specie e gli ecosistemi semplificati dai leoni riprenderebbero complessità.

Nessuna specie riesce a far estinguere tutte le altre specie: si estingue prima lei. Non ci dobbiamo preoccupare della natura, quindi, ci dobbiamo preoccupare di noi, del futuro della nostra specie. La nostra potenza tecnologica è il nostro peggiore nemico, se la usiamo per attingere risorse dall’ambiente in modo sempre più intenso.

Chi mi rimprovera di mettere l’ambiente davanti alla società e all’economia avrebbe ragione, se davvero lo facessi. A me interessano di più la società e l’economia, rispetto all’ambiente. Solo che società ed economia non possono essere sane se distruggono l’ambiente. L’Unione Europea ha abbracciato il concetto di salute unica proprio per unire la salute di biodiversità ed ecosistemi alla salute dell’economia e della società.

Se è tutto così ovvio, come mai stentiamo a considerare le conseguenze del nostro agire nel lungo termine? Noi siamo consci della finitezza della nostra vita: sappiamo che dobbiamo morire. Mo’ me lo segno, diceva Troisi. Una consapevolezza intollerabile, generatrice di depressione. Per vivere normalmente la dobbiamo rimuovere, e vivere “come se non ci fosse un domani”. Il che ci porta a non preoccuparci delle conseguenze delle nostre azioni nel lungo termine. Tanto, tra cento anni saremo tutti morti. É vero, ma ci saranno i nostri figli, i nostri nipoti. Quelli che rappresentano le Next Generations EU, le Prossime Generazioni.

Qualcuno dice: ma perché mi devo preoccupare delle generazioni future? Cosa hanno fatto loro per noi? E quindi vige il “chi vuol esser lieto sia, del doman non v’è certezza”. Se queste cose andavano benissimo nelle ere pre-industriali, pre-tecnologiche, e pre-globalizzazione, ora sono suicide per la nostra specie, diventata quel leone sulla piccola isola.

Dobbiamo inventare un modo nuovo di rapportarci con la natura. Chiamatelo come volete. Ora è di moda la transizione ecologica. Non è facile, non è detto che riesca. Possiamo anche fare finta di niente e continuare così, probabilmente il nostro tenore di vita privilegiato non sarà così intaccato nell’arco della nostra vita in questa parte del mondo. Ma i segnali sono fortissimi che già lo sia. Basta un virus e va tutto a gambe all’aria.

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