“Ce l’abbiamo nel dna”. Santo Boscarino risponde così all’obiezione più classica di tutte quando si tratta di volontariato, e cioè: “Ma chi ve lo fa fare?”. In Cgil da quando aveva 15 anni, oggi ne ha 73 ed è presidente del circolo Auser di Noto, in Sicilia. Guida una squadra di circa 25 persone, fra cui molti giovani fino ai trent’anni. Aiutano gli anziani e i soggetti fragili nella vita quotidiana: spesa, visite mediche, appuntamenti. In questo periodo, anche vaccini. Si occupano di selezionare ora e data e di portare i pazienti in sede, per poi ricondurli a casa. “Abbiamo realizzato 387 prenotazioni e 187 accompagnamenti. I nostri turni coprono tutta la giornata. Si comincia la mattina alle 8 e si finisce la sera, con gli ultimi vaccinati della giornata”. Si alternano in modo tale da incastrare volontariato e lavoro. “Abbiamo chiesto di poter essere vaccinati anche noi, così da essere utili in completa sicurezza, ma ancora non ci è stato concesso. Però andiamo avanti: non ci fermiamo”.

Associazioni, organizzazioni, progetti di aiuto nati appositamente: da quando è partita la campagna vaccinale in Italia il mondo del volontariato si è mosso per dare il proprio supporto a sanitari e logistica. In alcuni casi rispondendo all’appello delle Regioni, in altri proponendosi su iniziativa spontanea. I suoi protagonisti gestiscono la prima accoglienza in ospedale o negli hub, rassicurano i pazienti, fanno assistenza dove c’è mancanza e necessità. Se preparati, collaborano con il personale medico. Difficile trovare il numero preciso che li comprende tutti: si può recuperare qualche cifra. La Protezione civile ha inviato 10mila volontari su tutto il territorio nazionale, suddivisi fra le regioni. Dall’inizio dell’emergenza a oggi, la Croce Rossa conta quasi due milioni di giornate di servizio, sommando le ore delle turnazioni.

Auser Lombardia ha invece messo a disposizione 622 persone, responsabili di 2mila accompagnamenti ai centri. “Il nostro personale ha avuto accesso al vaccino e in questo modo siamo stati capaci di ampliare le nostre funzioni”, spiega Lella Brambilla. “Per esempio, la nostra sede di Voghera è stata messa a disposizione come centro vaccinale. E il nostro personale, oltre al servizio di accompagnamento, è stato impiegato anche negli hub stessi. Un esempio è quello di Sesto San Giovanni, dove stiamo assistendo disabili e anziani”. Quando possono intervengono nella scelta del luogo preposto alla vaccinazione, chiedendo sia senza barriere e facilmente raggiungibile. Soprattutto, cercano di colmare le crepe nella comunicazione: “Per esempio, ci portiamo sempre un elenco dei farmaci più comuni per la pressione alta. Spesso gli anziani se li dimenticano a casa e non se ne ricordano il nome. Cerchiamo di accompagnare le persone per tutto il tragitto, da quando chiudono casa a quando poi rientrano una volta fatto il vaccino”.

Anna è volontaria Auser da 12 anni e presta servizio nel circolo di Barlassina (Monza – Brianza). “All’inizio della campagna c’è stato un momento di panico perché la sede vaccinale di tutti i nostri assistiti era stata spostata a Milano: abbiamo provato ad organizzarci con staffette, ma i ritmi erano impossibili, la mattina ricevevamo anche 80 telefonate”. Poi i sindaci dell’area si attivano e gli anziani vengono ridistribuiti sul territorio locale, fra un paese e l’altro. Rimane però lo smarrimento: “Alcuni si presentano senza aver prenotato. Mostrano la carta d’identità e li rimandano indietro. Un prete ultranovantenne mi ha detto: ‘io non chiamo, aspetto che lo facciano loro’. Gli ho risposto: ‘venga qui, ce ne occupiamo noi’. E così è stato”. Per gli spostamenti chiedono di farsi pagare la benzina. Se no, dice Anna, non riuscirebbero a proseguire con l’assistenza. “Ma se c’è una difficoltà economica particolarmente grave non chiediamo neanche quella”, spiega. “In generale, io avrei cercato di gestire il più possibile le vaccinazioni a livello locale. Chiedere a ultraottantenni di spostarsi dal proprio paese è molto difficile: non tutti possono, non tutti guidano, non tutti hanno chi li può accompagnare. Quando lo facciamo noi, molti si commuovono”.

In altri casi invece gli anziani arrivano in pullman. Giacomo Fisco li vede arrivare ormai da qualche settimana a Piazzale Roma, Varese. Uno spazio ampio, usato di norma per lunapark e fiere, stavolta ripensato come sede vaccinale per una media di 2500 persone al giorno. “Io e i miei amici Matteo e Michelangelo (nati fra il ’95 e il ’98, ndr) ci siamo chiesti cosa potevamo fare per dare una mano. Sui social abbiamo lanciato lo slogan ‘Ghe sem’ e abbiamo chiesto a chiunque fosse interessato di farsi avanti”. Hanno risposto (quasi) tutti: studenti maggiorenni, lavoratori, pensionati, disoccupati che vogliono rendersi utili. Al momento si contano circa 350 adesioni, un numero che supera quello delle persone davvero necessarie. Turni da sei ore, con cinque o dieci volontari: si occupano di fare prima accoglienza. Assistono gli anziani dal parcheggio all’ingresso e li rassicurano: “Una volta ho parlato con una signora che non usciva di casa da cinque mesi. Il viaggio fino al piazzale l’aveva agitata moltissimo”. Vedono una cittadinanza solidale, che tende a fare rete: “Per esempio, un signore molto anziano era stato accompagnato da un amico più giovane. Significa che non solo si attiva il tessuto familiare, ma in generale gli affetti”. Aiutare i più fragili è importante sia per loro stessi sia per i più giovani: “Prima saranno vaccinati tutti gli anziani prima ci avvicineremo alla normalità. E quindi anche noi ragazzi potremo tornare a socializzare, cosa che manca a tutti”.

La risposta, perciò, sta nel fare. Così la pensa Livia, dagli anni ’90 infermiera volontaria della Croce Rossa. Alle spalle esperienze sul campo a Nassiriya, Baghdad, in Libia. Il Covid è un’altra prova che la riporta sul suo territorio: a Novi Ligure svolge servizio in ospedale, all’ingresso. E poi c’è la caserma di Bardonecchia, dove vengono ricoverati i militari in quarantena: “In questo caso facciamo assistenza infermieristica, prendiamo i parametri che poi comunichiamo ai medici”. Ed è proprio questo il momento in cui scatta il contatto con il paziente: “Vedo che aspettano il nostro arrivo, per scambiare due parole e uscire dall’isolamento in cui si trovano. Mi raccontano come mai hanno scelto questa strada, come va il loro percorso. Non entriamo mai nel personale, ma dialoghiamo”. Volontariato significa questo, per Livia: far capire con la propria presenza che c’è disponibilità, assistenza, vicinanza. Poche parole, solo quelle necessarie: “Quando apro la porta dei quarantenati e vedo che riusciamo a sorriderci mi ricordo che la nostra divisa, per i pazienti, è un punto di riferimento. Rappresenta un sollievo, la sicurezza di un ascolto attento. Sembra una cosa banale, ma in questi momenti capisco che sto facendo tanto”.

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